mercoledì 29 aprile 2009

Ritorno a quel paese

Sto arrivando.

Bolivia

Due parole sulla Bolivia le voglio spendere, anche se velocemente, che se poi scrivo da casa non vale più.
Di tempo non ne avevo più molto e il problema gastrointestinale di Salta me lo ha ulteriormente accorciato, anzi aveva messo in dubbio la stessa possibilità di andare. Per cui sapevo che sarebbe stato un passaggio rapido ed ero abbastanza rassegnato a conoscere solo la bellezza naturale del salar de Uyuni e poco più. Però appena ho messo piede in Bolivia, letteralmente appena attraversata la frontiera, ho avvertito che si trattava di qualcosa di totalmente diverso. Una permanenza di una settimana è troppo breve per poter capire un paese, però la Bolivia trasmette immediatamente qualcosa di forte, o almeno a me lo ha trasmesso. Per uno che viene dall'Europa il contatto con Argentina e Cile non è traumatico, con la Bolivia potrebbe esserlo. Si entra veramente in un altra realtà. Il poco che sono riuscito a conoscerne mi ha lasciato la voglia di ritornare. Dal poco paesaggio che ho potuto vedere in una settimana sono rimasto incantato dal primo all'ultimo minuto. Già durante il viaggio in treno dalla frontiera a Tupiza ho sempre guardato fuori dal finestrino a bocca aperta. In pochi chilometri mi è passato davanti di tutto, il deserto, valli verdissime, la steppa, la foresta, le montagne. Quasi difficile da digerire sensorialmente, tutta questa stimolazione visiva.
A Tupiza ho cercato un'escursione per il Salar de Uyuni, ed alla fine sono capitato in mezzo ad un gruppo di olandesi. Bella gente. Alternative all'escursione non ce n'erano. Sicuramente non per i tempi che avevo io, però credo che in generale fare lo stesso itinerario autonomamente sia molto difficile, e costoso. Occorre per prima cosa un fuoristrada, ma veramente fuoristrada (meglio di tutto sarebbe forse un trattore) in perfette condizioni, un'ottima cartografia e, visto che ormai esistono queste cose, un ottimo GPS. E non sono sicuro che tutto questo basterebbe. In certi casi la guida che conosce il posto può essere insostituibile. La cosa veramente ideale sarebbe forse quella di potersi permettere una guida tutta per sé e molto tempo a disposizione. In realtà il solo problema dell'escursione, anche se non da poco, sono stati i tempi troppo serrati. In quattro giorni abbiamo percorso 1.200 chilometri di sterrati terribili e le soste per forza dovevano essere brevi. Ho fatto presente la cosa alla guida e all'agenzia, mi hanno risposto che avevo perfettamente ragione e che condividevano, ma che però la domanda è questa. Il turista ha sempre i giorni contati e vuole fare tutto il più rapidamente possibile. Di fatto, mi hanno detto, la stessa escursione proposta in sei giorni invece di quattro non l'avrebbe comprata nessuno, sarebbe stata uno spreco di tempo. Il concetto dei giorni contati è relativo: dipende da quante mete si vogliono collezionare in un viaggio. Io come si è capito sono per collezionarne di meno e spendere un po' più di tempo per ognuna, ma la maggior parte dei turisti non la pensa come me e preferisce tenere anche in vacanza lo stesso ritmo della vita quotidiana. Certo, un viaggio di mesi è diverso da un viaggio di settimane ed è una rarità avere a disposizione tutto il tempo che ho avuto io. Però il principio è lo stesso: in quattro giorni avrei preferito vedere qualche laguna, vulcano e salar in meno e dedicare più tempo a quello che avrei visto.
Mi è piaciuta l'agenzia comunque, credo di avere scelto quella giusta, così come la guida, un ragazzo che fa questo lavoro con passione, e tanto più l'ho capito dopo che mi ha raccontato che prima lavorava in una miniera.
Questa agenzia nei primi due giorni segue un percorso alternativo rispetto alle altre. Passa per alcuni villaggi completamente isolati con l'obiettivo di coinvolgere la gente del posto e permettere anche a loro di guadagnare qualcosa dal flusso turistico, che nella zona del salar si sta espandendo molto. A proposito della puna argentina avevo parlato di un mondo remoto, ma se quello era un mondo remoto, questo è letteralmente un altro pianeta. Chilometri e chilometri di strada impossibile, persi attraverso montagne selvagge, senza nessuna traccia di presenza umana. Nei villaggi, incredibilmente isolati e lontani da tutto, la gente ci guardava tenendosi a distanza, era quasi impossibile parlare con loro. In quello dove abbiamo dormito le donne che ci hanno preparato i letti sembrava che volessero farlo più in fretta possibile per allontanarsi al più presto da noi. Sono posti dove si fa una vita durissima. Vivono solo dell'allevamento dei lama e si nutrono quasi esclusivamente di carne di lama. La loro vita media non supera i 55 anni. Hanno grossi problema alla vista, perché si riscaldano bruciando un arbusto che produce un fumo tossico, e le loro case sono quasi completamente prive di finestre. Però mi hanno detto all'agenzia che è stato difficilissimo convincere la gente dei villaggi a mettere in piedi dei piccoli ostelli. Per quanto sia duro sono estremamente legati al loro modo di vivere. E' l'unico che conoscono. Credo che l'essenza della Bolivia sia questa: l'isolamento, la vita durissima e povera e il fortissimo legame con le tradizioni. Oltre allo spagnolo si parlano decine di lingue antiche, in alcuni luoghi solo quelle. Non si tratta di un mondo inesplorato, nemmeno socialmente. Ma molto poco esplorato. Nemmeno di un mondo incontaminato, si tratta. Forse nei luoghi più remoti sono secoli che non ci sono contaminazioni, ma anche qui arrivarono i conquistadores, infatti si parla lo spagnolo e anche nei villaggi più sperduti ci sono le chiese. E del resto prima degli spagnoli arrivarono gli Incas, ad assoggettare popolazioni, portare via l'oro ed imporre la loro lingua e le loro tradizioni. E forse basta il passaggio di un turista, di un viaggiatore, di uno studioso, per iniziare a contaminare.
Purtroppo non posso continuare: il tempo è scaduto e devo andare all'aeroporto. Il resto ve lo racconto a voce quando ci vediamo.
Aggiungo al volo un po' di foto.









lunedì 27 aprile 2009

Racconti arretrati

Da Cafayate fino a Salta ho quasi sempre avuto compagni di viaggio più o meno fissi. All'inizio è stato in parte un caso perché lungo la via delle valli Calchaquies i mezzi di trasporto sono rari e le tappe quasi obbligate ed è inevitabile ritrovarsi sempre tra le stesse persone. Tra Angastaco e Molinos, in particolare, trasporti pubblici non ci sono proprio e bisogna contrattare un passaggio in auto con qualcuno del posto. Fare autostop in questo tratto può essere dura: può capitare che in una giornata intera non si incontri nessuno che lo percorra per intero e ad essere lasciati per strada si rischia di finire arrostiti sotto il sole.


Tempesta a Cachi

Poi a Salta, insieme a Sylavain, un francese con cui mi ero trovato in buona sintonia, abbiamo deciso di noleggiare un'auto per quattro giorni, per avere una volta tanto la libertà di muoverci, e di fermarci, a nostro piacimento.
E così siamo partiti in direzione di San Antonio de Los Cobres, verso la cordigliera. La strada sale quasi sempre affiancata al percorso di un'altra ferrovia il "tren à las nubes".

Tren à las nubes
Il ferrocarril trasandino del nord. Collega Salta con il porto di Antofagasta, in Cile, ed attraversa la cordigliera spingendosi fino alla quota di 4.200 metri. Gli studi per la realizzazione iniziarono nel 1889, i lavori nel 1921 e la linea completa fu inaugurata nel 1948, dopo mille difficoltà finanziarie, tecniche e politiche: tra il concepimento del progetto e la realizzazione passarono 59 anni. Anche questo fu uno sforzo enorme per l'epoca e considerata l'altitudine, il clima estremamente rigoroso e i mezzi a disposizione i lavori furono particolarmente duri. Il tracciato, oltre ad attraversare ponti, viadotti arditi e tunnel, per superare le pendenze più forti sale a zig-zag. Il treno in questi punti marcia avanti e indietro: prima dei tratti più ripidi retrocede su una via inclinata parallela al binario principale per prendere la rincorsa e poi si lancia di nuovo in avanti a tutta birra fino a svalicare. Se non ce la fa ripete l'operazione.
A partire dagli anni 70 si iniziò a sfruttarlo turisticamente. La mia guida parlava di un treno merci ancora attivo che arrivava fino al Cile e che offriva anche un servizio passeggeri molto spartano, ma pare che ormai anche questa linea sia definitivamente interrotta. Rimane solo il treno turistico, che arriva fino al famoso viadotto de la Polvorilla (se cercate su google "tren a las nubes" vi escono migliaia di fotografie di questo ponte di ferro), una ventina di chilometri dopo San Antonio de los Cobres, e rientra a Salta in serata. In tutto una quindicina di ore di viaggio a una media di meno di quaranta chilometri all'ora, che si pagano piuttosto salate. Il treno è dotato di tutte le comodità e gli intrattenimenti. Guide che illustrano i passaggi salienti in varie lingue, ristorante, musica, video, spettacoli folcloristici, medico per eventuali problemi dovuti all'altura, e ad ogni fermata l'offerta di specialità ed artigianato locale da parte della gente del posto. In realtà anche il treno turistico negli ultimi anni circola a fatica. Nel 2005 un'avaria al locomotore lasciò cinquecento turisti bloccati in mezzo alle montagne, non esistendo una locomotiva di riserva né un piano di evacuazione di emergenza. Il treno ha ripreso a funzionare nel 2008, ma ora è di nuovo fermo a causa delle piogge forti e fuori stagione che sono cadute nella zona negli ultimi mesi e che hanno danneggiato parti del tracciato. Sembra che la circolazione riprenda nel mese di maggio.

La strada e la ferrovia salgono lungo la quebrada del Toro, un'altra valle scenografica. Nella parte più bassa circondata da montagne verdi, salendo l'ambiente si inaridisce velocemente. I cactus e gli arbusti prendono il posto degli alberi, le montagne si fanno brulle e colorate ed il terreno si fa sabbioso. In mezzo a questo paesaggio incontriamo un cimitero isolato, senza nessun villaggio nelle vicinanze. Come se i defunti avessero deciso loro di andare a stabilirsi là.



Per la pausa pranzo ci fermiamo a Santa Teresa de Tastil, un villaggio minuscolo di popolazione esclusivamente autoctona. Quando stiamo per ripartire il proprietario della locanda dove avevamo mangiato ci chiede se avevamo visto le rovine. Quali rovine? Io non ne sapevo nulla, ma neanche il mio compagno di viaggio che normalmente era molto più documentato di me. Sicché il locandiere ci fa da guida e ci accompagna alle rovine di una grande città preincaica arroccata tra le montagne a poche centinaia di metri dal villaggio. Alla nostra guida chiedo a che epoca risale, quale popolazione la abitava, quando fu abbandonata, se fu assoggettata all'impero inca. Ma lui ne sapeva poco, solo continuava a raccogliere per terra punte di frecce di ossidiana. In seguito ho cercato notizie sopra alla città, ma ho trovato ben poco. Pare fosse abitata da circa duemila persone e che fu abbandonata intorno al 1.400 per non si sa quali motivi, ma non si trattò né di una guerra né di un'epidemia.


la locanda di Santa Teresa de Tastil


le rovine di Tastil (dietro il cactus)

Ripartiamo portando con noi due donne che ci avevano chiesto insistentemente un passaggio fino a San Antonio de los Cobres. La strada ha continuato a salire fino ad attraversare un passo dopo il quale siamo sfociati nella puna, l'altipiano andino di alta quota stepposo, arido, colorato, orlato dalla cordigliera e attraversato da cordoni di montagne tra cui diversi vulcani, eroso dallo scorrimento dell'acqua, ricco di saline e lagune, che si estende dalla provincia di San Juan e prosegue in Bolivia. Una forte sensazione di rarefazione. Al di là dell'effettiva rarefazione dell'aria.


la rarefatta puna

L'imprevista sosta archeologica ci ha pregiudicato la possibilità di raggiungere il Salar Grande, una lago salato dove volevamo piantare le tende, e quindi abbiamo passato la notte a San Antonio de los Cobres, una città mineraria quasi impressionante, sperduta in mezzo alla puna. Per San Antonio il treno turistico è una risorsa notevole. Nella città esiste una tradizione antica di lavoro di tessitura da parte delle donne. I turisti del treno sono ottimi compratori. A tal proposito, le due gentili signore, per ringraziarci del passaggio, ci hanno venduto due berretti di lana fatti a mano ad un prezzo che poi si è rivelato essere molto più alto di quello corrente in zona per prodotti simili. I berretti però almeno si sono rivelati molti utili nel freddo serale e primomattutino. Approfittando dell'ultima luce ci siamo spinti un po' oltre San Antonio, lungo una strada ai limiti del possibile per l'utilitaria che avevamo, fino al viadotto della Polvorilla, il punto di passaggio più spettacolare ed elevato della ferrovia, a 4.200 metri. Ho retto abbastanza bene all'alta quota, considerato che era la prima volta nel corso del viaggio che arrivavo così in alto, anche se poi la sera ho pagato con un po' di mal di testa. Sono riuscito ad arrampicarmi sul dirupo che portava sopra al ponte senza morire, anche se mi dovevo fermare di continuo per prendere aria. Che però non c'era. Sono solo una sessantina di metri di dislivello, ma a quella quota e senza acclimatamento è una faccenda impegnativa.
Ho attraversato il ponte. Sul lato da cui sono partito c'era un cartello illeggibile. Sull'altro lato lo stesso cartello era leggibile, e c'era scritto che era vietato attraversare il ponte. Di certo non c'era nessuno a farmi la multa, però effettivamente è stata una passeggiata vertiginosa, e infatti mentre camminavo lungo il ponte, tenendomi quasi sempre rigorosamente al centro dei binari, pensavo: ma perché non è vietato fare quello che sto facendo?

La parte migliore della libera escursione automobilistica è stata la seconda giornata, quando abbiamo attraversato la puna. Lo è stata per noi noi ma non per l'automobile, che ha dovuto affrontare tutt'altre strade rispetto a quelle per cui era sta progettata. Sembrava di essere in un'altra dimensione. Il paesaggio sembrava rarefatto come l'aria. In tutta la giornata abbiamo incrociato due auto e un camion, per quanto riguarda l'universo della mobilità umana. Il traffico animale invece era molto più intenso: nandù (cugini degli struzzi), vigogne, lama, e tanti liberi somari della steppa. Non so perché ci fossero tanti somari. Forse sono scappati dalle miniere.


traffico sulla Ruta 40


i liberi somari della puna

Alcuni minuscoli villaggi e alcune case isolate. Davvero un altro mondo (rispetto a quello che sono abituato a frequentare). In uno dei villaggi abbiamo cercato di parlare con dei bambini che pascolavano capre. Non è stato facile, parlavano con un accento che non riuscivamo a capire, così come per loro era difficile capire noi. Erano curiosi e sembravano timorosi allo stesso tempo. Guardavano le nostre macchine fotografiche come fossero oggetti misteriosi, e probabilmente un po' anche le nostre persone.





Nella mia ignoranza geografica avevo sempre associato la Ruta 40 alla Patagonia, invece attraversa tutta l'Argentina fino quasi al confine con la Bolivia. Ne abbiamo percorsi gli ultimi cento chilometri e ne avevamo percorso dei tratti tra le valli Calchaquies. Ad un certo punto abbiamo incontrato una donna che faceva autostop. Non un timido chiedere un passaggio con il dito pollice alzato: si era piazzata in mezzo alla strada e sbracciava. Non poteva lasciarsi sfuggire la forse unica auto della giornata. L'abbiamo caricata ma con il proposito di non comprare berretti di lana. Stava aspettando da tre ore ed è stata fortunata. Viveva nel minuscolo villaggio a qualche centinaio di metri dalla strada, che non avevo neanche notato per via del colore delle case, costruite con mattoni di adobe (fango e paglia seccati al sole) che si confondeva con quello del terreno. Nel villaggio è nata ed ha sempre vissuto, e probabilmente non si è mai allontanata di molto dalla puna. Stava andando a trovare la figlia ad Abra Pampa, il paese dove sfocia la Ruta 40. Anche con lei è stato difficile comunicare, per via dello stesso accento dei bambini. Sapevo che da queste parti c'è ancora gente che parla il quechua, la lingua degli Inca. Ho pensato che questo accento potesse essere l'inflessione quechua, ma l'ho considerata più una fantasia che un'ipotesi. In seguito invece mi è stato confermato che era proprio così.
Questa è ancora un'altra Argentina, molto diversa anche da quella, pur popolata prevalentemente da autoctoni, della zona di Cafayate e delle valli Calchaquies. Qui è veramente un posto lontano da tutto, abitato da gente radicata in una cultura remota, che vive una vita povera e dura in un ambiente dove, per uno che non ci è adattato, è difficile anche respirare.
Anche ad Abra Pampa, che è un centro più grande, l'atmosfera era strana. Sono ripartito con la sensazione di qualcosa che mi sfuggiva. Non è un posto molto invitante, sicuramente non dal punto di vista turistico. Povero, polveroso e scolorito. Sicuramente autentico, su questo non c'è dubbio. Le solite difficoltà, linguistiche e non, per comunicare con la gente. Che non era ostile, ma ci guardava con uno sguardo che io interpretavo come "ma cosa sono venuti a fare fin quassù, questi due?". Gente che sicuramente non si apre al primo impatto, quello che noi non abbiamo superato nel poco tempo che ci siamo fermati. Sarebbe stata necessaria una sosta più lunga per afferrare qualcosa del posto, e per dare il tempo alla gente, se lo desiderava, di studiarci meglio e di aprirsi un po'.

Siamo ridiscesi per la via "principale", quella che viene dalla Bolivia ed attraversa la celebrata quebrada de Humahuaca. Io mi aspettavo qualcosa di un po' più selvaggio, tipo la quebrada de las Conchas, invece è una valle molto più grande, larga, ed è attraversata da una strada importante. Intorno montagne piuttosto imponenti. L'evoluzione geologica ha disegnato linee a zig-zag e i chissà quanti metalli in mezzo alle rocce le hanno multicolorate.



Però venendo dalla puna e da quel mondo rarefatto sono rimasto un po' deluso. Non tanto dal luogo fisico, però mi ha lasciato un po' male la strada ed il notevole viavai turistico che di nuovo ho incontrato lungo la tutta la valle.
Ma comunque, la quebrada è patrimonio culturale dell'umanità perchè vi si conserva uno stile di vita rimasto inalterato per secoli. Così dicono. Nei centri più grandi (Humahuaca, Tilcara e Purmamarca) si notavano soprattutto le bancarelle di prodotti tessili artigianali. Sicuramente questo commercio va a vantaggio della popolazione locale, però gli autoctoni venditori vestivano abiti occidentali mentre i turisti vestivano di colorati tessuti andini appena comprati nelle bancarelle. I conti non tornavano proprio tutti. Possibile che negli anfratti laterali della valle, nei villaggi più isolati, le cose siano differenti e che le tradizioni e lo stile di vita patrimonio dell'umanità siano realmente vive.



In ogni caso non si tratta di uno stile di vita preispanico, ma piuttosto di quello che si è creato dalla mescola tra i primi spagnoli arrivati in zona e la popolazione indigena. Avrei voluto approfondire meglio l'argomento. Comunque, da quanto sono riuscito a capire, queste zone, dopo l'arrivo della prima ondata di colonizzazione spagnola, sono state oggetto soprattutto di uno sfruttamento minerario (la stessa cosa che era successa non molto tempo prima con l'assoggettamento all'impero Inca). Gli spagnoli da qui hanno prelevato oro e altri metalli, ma non vi hanno mai creato insediamenti importanti. Sono zone aride, a parte gli stretti fondovalle non ci sono altre opportunità per l'agricoltura e sicuramente costringono a condizioni di vita piuttosto dure. Sicché dopo il primo insediamento non sono seguite altre ondate migratorie ed il risultato della prima mescolanza si è mantenuto intatto nei secoli seguenti. E così il cristianesimo ha fatto anche qui il suo ingresso ma non ha soppiantato le tradizioni e la religione preesistenti, piuttosto si è creata una miscela in cui convivono e spesso si fondono le processioni dedicate ai santi e i riti dedicati alla Pachamama, la madre terra, la divinità più ancestrale. Così come preti e chiese convivono con stregoni e i riti magici e le farmacie convivono con il curandero.
A Humahuaca c'è un museo molto interessante che spiega approfonditamente gli aspetti di questa cultura. E' un museo privato messo in piedi da un personaggio locale, che però ci tiene moltissimo a specificare che lui non è uno storico. Tante volte infatti gli ho chiesto notizie storiche sulla zona e lui insistentemente non me le dava. Ti posso raccontare solo il modo di vita di queste parti, mi diceva.

Nella ridiscesa verso Salta segnalo la notte passata a Jujuy per l'ostello in cui mi sono trovato peggio durante tutto il viaggio e per un temporale che mi ha quasi messo paura. L'ostello tracimava di giovani vocianti, allegri, festanti, euforici, il tutto a parere mio abbastanza eccessivo e ingiustificato. Ho dormito al terzo piano di un letto a castello. Se guardavo in basso mi venivano le vertigini quasi come sul viadotto della Polvorilla e l'operazione acrobatica di sistemare le lenzuola sul letto sarebbe stata pericolosa anche per un alpinista professionista. Appena arrivati è scoppiato un temporale furioso e in pochi minuti la strada è diventata un fiume in piena. Ho portato la macchina in salvo in un parcheggio coperto, ma non è stato per niente bello guidare in mezzo a quel fiume. In certi momenti ho davvero avuto paura che mi portasse via. All'interno dell'ostello c'era più umidità che fuori e la mattina seguente sia io che i miei vestiti eravamo più bagnati della sera prima.
Il tratto tra Jujuy e Salta l'abbiamo fatto lungo una bellissima strada secondaria di montagna, attraverso un' altra vera foresta tropicale. La strada ci era stata descritta come difficile e pericolosa e per questo l'abbiamo affrontata con un certo timore, anche per via della pioggia del giorno prima. Invece era in condizioni perfette e a differenza di come pensavo era completamente asfaltata. In mezzo alla foresta mi aspettavo che da un momento all'altro il paesaggio cambiasse all'improvviso e ci ritrovassimo di nuovo in mezzo ai cactus. Non è successo, però è veramente notevole la variabilità di ambienti che si incontra in questa zona dell'Argentina.

A Salta ho deciso di fermarmi per un paio di giorni. Le ultime settimane le avevo passate ad un ritmo troppo serrato per i miei gusti e nemmeno il fatto che di tempo ormai me ne rimanesse poco mi stimolava a proseguire alla stessa velocità. Anzi, tanto più sentivo la necessità di fare una sosta. Sylvain invece è ripartito subito per la Bolivia. Purtroppo la sosta si è prolungata abbastanza oltre il previsto a causa di un altro problema gastrointestinale. La fase acuta è stata breve ma mi ha lasciato per diversi giorni completamente privo di forze. Quando mi è sembrato di stare meglio sono ripartito verso la Bolivia, però ho deciso di fare una sosta intermedia, di nuovo a Humahuaca, che si trova a circa tremila metri di quota, per vedere come reagiva il fisico all'altura. Nei giorni precedenti avevo passato alcuni giorni in quota e dovevo essere già abbastanza acclimatato, ma non ero ancora sicuro di essere del tutto a posto. Ed in effetti mi sono di nuovo sentito giù di forze ed ho aspettato per salire ancora. Ho fatto bene, perché poi quando il giorno dopo, questa volta sentendomi bene, sono arrivato a La Quiaca, la città argentina al confine con la Bolivia, ho trovato la strada bloccata da una manifestazione. Mi sono dovuto fare alcuni chilometri a piedi, a pieno carico e a 3.500 metri. Se mi fosse capitato il giorno prima sarebbe stata molto dura.
Risalendo ho ripercorso di nuovo tutta la quebrada de Humahuaca, da solo, e l'ho apprezzata di più rispetto al primo passaggio. I colori delle montagne in alcuni punti hanno veramente dell'incredibile. La stessa città di Humahuaca l'ho trovata molto più gradevole. C'è da dire che nel precedente passaggio ero capitato in piena settimana santa, in un momento di picco turistico. Ora l'atmosfera era molto più tranquilla. Ma devo anche dire che viaggiando da solo probabilmente sono più ricettivo, o forse semplicemente presto più attenzione.

venerdì 17 aprile 2009

Tempo di conclusioni

Il tempo, che all'inizio scorreva lentissimo, negli ultimi due mesi è letteralmente volato via, ed ora mi ritrovo che mentre sto cercando di raggiungere, con qualche difficoltà, il mio ultimo obiettivo, un pezzettino di Bolivia, devo già pensare a come organizzarmi per un rientro rapido, prima a Mendoza e poi a Buenos Aires.
Queste ultime settimane mi sono passate davanti come un treno in corsa ed ho la sensazione di non essere riuscito a saltare su al volo. O forse proprio il contrario: sono saltato su al volo ma ho preso il treno sbagliato. Succede quando si fanno le cose di fretta.
Non posso dire di essere deluso, perlomeno non più di tanto, però me la sarei potuta giocare un po' meglio. Anche se i posti sono bellissimi ho trovato il nord dell'Argentina diverso da come me lo ero immaginato. Mi ero fatto l'idea di luoghi un po' più remoti, per così dire. E invece mi sono ritrovato di nuovo dentro il circuito del turismo internazionale, grazie a Dio perlomeno relativamente di bassa stagione, che mi ha quasi risucchiato. Qui i collegamenti sono buoni sulle rotte principali, ma uscirne in corsa non è semplice. Bisogna impegnarsi.
E luoghi remoti in realtà ci sono, ma non era facile arrivarci: il solito problema di muoversi coi mezzi pubblici. Però si, non era facile, ma forse non impossibile. Forse per una volta avrei dovuto spendere del tempo per studiare meglio l'itinerario a tavolino. Non tanto per stabilire dove andare, ma piuttosto dove evitare di andare. Sicché negli ultimi tempi mi sono mosso in un modo e con dei ritmi che non sempre erano i miei. Il tempo che iniziava a stringere e l'inevitabile necessità di dover cominciare a fare dei calcoli e delle scelte mi hanno messo un po' in affanno e reso poco lucido, e non sono riuscito a trovare il momento buono per dare il colpo di reni e tirarmi fuori da questo piccolo vortice.
Non è certamente una tragedia, comunque.
Tecnicamente l'errore è stato quello di lasciarmi troppo poco tempo per il nord. Non perché ne abbia perso troppo tempo al sud. Laggiù mi sono mosso benissimo. Avrei semmai dovuto continuare a risalire con lo stesso ritmo, dedicando la stessa attenzione che avevo dedicato al ventoso sud fueguino e patagonico a tutti i posti dove sarei passato, arrivando alla fine semplicemente dove mi avrebbe portato il viaggio stesso.
Ma del resto il mio desiderio di salire al nord era reale, avevo davvero voglia di assaporare paesaggi ambienti e climi differenti. Probabilmente allora, una volta realizzato che ero completamente appagato dal sud, più o meno dopo aver visto il Cerro Torre, sarei dovuto salire con semplici e veloci tappe di trasferimento. L'errore è stato quel periodo di transizione troppo lungo, che non è stato né un trasferimento né una fetta di viaggio pienamente vissuto. Diciamo meglio che l'errore è stato di considerare il tempo a mia disposizione come indeterminato, e invece non lo era. Era tanto, ma non infinito. Ma va bene lo stesso, guardo il lato positivo: probabilmente ho imparato di più in questi ultimi due mesi che in tutto il resto del viaggio.
Ho imparato a viaggiare. O meglio, ho imparato come devo farlo io. Devo seguire il mio istinto, c'è poco da fare. Mi dà sempre i suggerimenti giusti, sono io che qualche volta insisto a non dargli fiducia e a farmi condizionare da quello che fanno gli altri. Vedere compagni di viaggio occasionali e di tratti di percorso parziali salutarmi e andare via a doppia velocità rispetto alla mia, anche i più lenti che ho incontrato, qualche volta mi metteva addosso qualche dubbio. Mi veniva da pensare certo, per una volta che sono in Sud America come posso non vedere anche il tale posto e il tal'altro. Bene, bisogna scegliere: o collezionare posti o seguire il proprio ritmo. Io ho cercato di seguire il mio ritmo, ma a volte però sono caduto nella tentazione del collezionista.
Comunque in un viaggio di mesi non ci si può muovere come in un viaggio di settimane. E' un'altra cosa. Il viaggio di settimane si, probabilmente è fatto soprattutto per vedere posti, il viaggio di mesi non solo. Non si possono passare mesi a macinare mete una dopo l'altra. Ogni tanto bisogna fermarsi, solo per fermarsi. Per prendere fiato, per mettere un po' in ordine, se no resta solo una gran confusione.
Il modo in cui mi sono mosso nei primi mesi assomiglia molto al mio viaggio ideale. L'itinerario a spirale sbilenca va benissimo. E' il mio. Ma potrebbe essere il mio anche un itinerario rettilineo. Qualsiasi forma abbia, rettilinea, a spirale, a trapezio, puntiforme, di traverso, verticale, all'indietro, l'importante è che sia il mio.
E va benissimo, per il mio viaggio, avere obiettivi diversi dal solo vedere posti. E spenderci tempo, anche molto. Seguire le tracce di qualcuno: l'idea era ottima. Solo che avevo scelto di seguire le tracce di uno come De Agostini, e sfido chiunque a stargli dietro. Ma ci sono mille cose interessanti in ogni posto in cui ci si ferma, di tracce da seguire e di storia e storie da conoscere ce ne sono un'infinità. Fermarsi in un posto e scoprire cosa c'è dietro ha tutto un altro sapore. Spenderci tempo chiedendo, informandosi, parlando, è un modo straordinario per entrare in contatto con la gente e conoscere l'anima di un luogo. Di qualsiasi luogo.
I miei compagni di viaggio delle ultime settimane studiavano molto l'itinerario a tavolino e spesso, riferendosi a determinati posti, li ho sentiti dire: qui non c'è niente. Solo per aver letto la guida. Al di là delle tante magnifiche bellezze naturali che ho visto, i posti in cui mi sono sentito meglio, parlo del mio stato d'animo, sono stati alcuni di quelli in cui "non c'era niente".
I miei primi mesi di viaggio semmai sono stati inquinati dalle aspettative, e anche da un po' di affanno, che mi ero portato da casa. Cercavo un'alternativa ed avevo la vaga illusione di poter di fare di questo viaggio un lavoro completo e presentabile. Quando ho capito che le idee che avevo non erano realizzabili la delusione non mi ha permesso di capire che perlomeno avevo scoperto il mio modo perfetto di viaggiare. Mi ha appassionato davvero indagare, accumulare materiale, passare tempo a mettere in ordine gli appunti vari, come fosse stato un lavoro.
A guardarli ora i miei progetti iniziali erano veramente ingenui e irrealizzabili. O troppo generici e vaghi, oppure assolutamente fuori dalla mia portata fisica ed economica. Non si può partire con idee così generiche e sperare di tirarne fuori qualcosa di buono. Almeno non può farlo uno come me, così lento a leggere quello che sta succedendo e così poco pronto a cambiare rotta al volo.
Per esempio, ora che conosco meglio questa realtà e so molto meglio come muovermi, ho in mente almeno due idee per lavori fotografici e di documentazione. Questa volta si tratta di progetti precisi, delimitati, con un inizio e una fine, e alla mia portata. Tranne che finanziariamente: i soldi a mia disposizione finiscono qui.
Voglio anche dire che durante tutto questo viaggio non mi sono mai sentito in vacanza, tranne nei pochi giorni in cui mi sono deliberatamente dedicato al puro e semplice riposo, senza pensare a niente. La gente, per inquadrarmi, mi chiede se sono qui per lavoro o "de vacaciones". Io rispondo de vacaciones, ma in realtà non mi sento dentro a questa categoria. E' una fortuna potersi permettere un viaggio come questo, sono d'accordo, ma non si tratta di una vacanza. Non vorrei usare parole troppo retoriche ma non so se ne sarò capace. E' stato un lavoro continuo, dal primo giorno fino all'ultimo. Un lavoro non retribuito e senza finalità economica. E, perché no, piacevole. Quasi sempre, ma non sempre. Un lavoro di apprendimento, di conoscenza esterna ed interiore. Che comporta la necessità di rendere più elastica la propria mente. Non è stata un'avventura estrema ma lo stesso è stato fare i conti con i miei limiti e provarli sul campo. Conoscerli, riconoscerli, qualche volta superarli e qualche volta dover mettere il segno e fermarsi lì. Mi sono sempre impegnato molto.
Le conclusioni definitive le tirerò alla fine. Però ora che ho imparato tutto questo sarebbe un peccato non poter ripetere l'esperienza.

martedì 14 aprile 2009

Cafayate e le valli Calchaquies

Poco dopo aver lasciato Tucuman in direzione di Cafayate si entra in una valle profonda le cui pareti sono ricoperte da un'autentica foresta tropicale. Ad un certo punto la strada comincia a salire, sempre circondata dalla vegetazione esuberante, finché, da un momento all'altro tutto cambia e ci si ritrova in mezzo ai cactus. Fare un sonnellino nel bus può far perdere le coordinate: ci si addormenta in mezzo alla jungla e ci risveglia nel deserto. Al risveglio è molto più facile credere che si sia fermato l'orologio piuttosto che ci si sia appisolati solo per cinque minuti.
Cafayate è una bella piccola città coloniale, in una valle fertile circondata da cactus enormi e montagne brulle di rocce colorate. Ho trovato l'atmosfera della città gradevole e rilassante, ma questa percezione è stata favorita dal fatto che l'apice della stagione turistica era già passato. Nei dintorni di Cafayate una valle spettacolare, la quebrada de las Conchas.




La quebrada de las Conchas


Montagne colorate

Il solito problema di come muovermi per le lande sperdute questa volta l'ho risolto grazie ad un'offerta dei ragazzi dell'ostello. Per una molto modica cifra uno di loro ci ha accompagnato in macchina, a me e a un francese, lungo la valle, fermandosi quando volevamo noi ed accompagnandoci per qualche camminata tra i meandri del canyon. L'alternativa era l'escursione di gruppo a tappe forzate pressati dentro un pulmino. Oppure la bicicletta. Si sarebbe trattato di caricarla su un bus di linea, scendere alla fine della valle e risalirla pedalando. Nonostante i cattivi ricordi di Puerto Williams e nonostante il caldo torrido che avrei incontrato ero disposto a pedalare di nuovo pur di evitare l'escursione compressa. Poi si è presentata la possibilità dell'ostello e siamo stati tutti contenti. Anche perché se avessi scelto la bicicletta non mi sarei potuto inoltrare all'interno dei canyon.
Non distante da Cafayate, immerse in mezzo ai cactus, ci sono le rovine di Quilmes, una città che per più di cento anni ha ricacciato indietro i conquistadores spagnoli. Fino a quando questi hanno capito che avrebbero dovuto tagliare le risorse idriche della città e così hanno fatto, deviando a monte il corso del fiume che la alimentava.


Quilmes

Da Cafayate ho proseguito verso Salta lungo le valli Calchaquies, passando per Angastaco, Molinos e Cachi. Strada scoscesa e paesaggio straordinario specialmente lungo il primo tratto, da Cafayate ad Angastaco. Dune di sabbia, montagne colorate, rocce appuntite, cactus, e sul fondo della valle, un po' di vegetazione, alcune coltivazioni e case sparse, costruite con mattoni di terra e paglia seccati, o piccoli villaggi. Di nuovo mi è costato vedere tutto dal finestrino del bus. Una frustrazione diversa però da quella che avevo provato altre volte. Qui avevo davvero e semplicemente voglia di fare foto per il piacere di farle, ma senza sentirmi in obbligo.
Angastaco è un villaggio costruito sulla sabbia, sul bordo della valle fertile e con il deserto incombente appena dietro le ultime case, con le dune che sembrano spuntare fuori dai tetti. Qui di turisti se ne fermano pochi. Camminate nei dintorni se ne possono fare il mattino presto o verso sera, nelle ore centrali della giornata il calore scoraggia molto. Quando mi sono avventurato l'orologio tecnologico del francese che era con me segnava 44 gradi verso le undici del mattino. Il luogo piuttosto invitava a trascorrere il tempo seduti all'ombra di qualche portico. Neanche a guardare la gente che passava, perché di gente ne passava veramente poca. Posti più tranquilli di questo al mondo ce ne sono pochi.
Risalendo per la valle una breve tappa a Molinos, altro piccolo villaggio, non piccolo quanto Angastaco, ma sicuramente dalla vita non molto più movimentata, e poi, salendo prima su un altopiano pieno di cactus e poi scendendo per mille tornanti lungo un'altra bella valle, si arriva a Cachi.
Che è un'altro luogo molto gradevole la cui gradevolezza è stata accentuata dal relativamente basso flusso turistico. Devo ammettere che di queste zone mi ero fatto l'idea che fossero un po' più sperdute e remote, invece tutti turisti che salgono verso il nord dell'Argentina passano per Cafayate e quasi tutti passano per Cachi. Nonostante ciò anche la sosta a Cachi è stata gradevole, la cittadina è bella ed è popolata da nativi cordiali e sorridenti. Salendo verso nord infatti sembra di entrare in un'altra Argentina. A partire da Tucuman la percentuale di nativi è andata sempre più aumentando, fino a diventare la quasi totalità della popolazione nei villaggi più piccoli.
Nei dintorni di Cachi ho potuto fare una bella camminata lungo la valle coltivata quasi interamente a peperoncini, ma guardando un po' più in là veniva la voglia di curiosare su cosa si sarebbe potuto incontrare alla fine della vallata o dietro a quella tale montagna. Ma il problema che continuo ad incontrare, il problema che ho incontrato durante tutto il viaggio, è quello di come muoversi. Si è prigionieri delle città e dei villaggi. Le alternative sono poche: o farsi spennare dalle agenzie turistiche per escursioni guidate, o farsi spennare dagli autonoleggi. A piedi c'è veramente poco dove andare, le distanze sono enormi e senza mezzi a motore non si va lontano.


Peperoncini al sole

Di nuovo verso nord

Dopo Valparaiso ho ripreso la rotta verso nord, obiettivo la zona di Salta e Jujuy. Ho considerato la possibilità di salire per il Cile, ma il primo passo transitato dai mezzi pubblici che avrei incontrato sarebbe stato quello di Jama, molto a nord: sarei dovuto arrivare fino a San Pedro de Atacama. In quelle zone ci sono già stato e ci sarei anche tornato volentieri, però il tempo inizia a stringere e mio malgrado devo iniziare a fare dei conti. Alla fine ho scelto il versante argentino per vedere, sempre attraverso la cornice del finestrino di un bus, un paesaggio che non conoscevo.
Quindi nuovo attraversamento di cordigliera e confine, di nuovo per il passo de Los Libertadores e di nuovo ammirando il rampicante percorso del Ferrocarril Trasandino ed il selvaggio e multicolore paesaggio di quelle montagne.
Le prime due tappe sono state San Juan e Tucuman. Delle due città ho poco da raccontare perché ho visto poco, avendo passato la maggior parte del tempo a chiacchierare dentro gli ostelli.
Se c'è una cosa buona che ha portato il passare del tempo è la fine della stagione turistica. Dopo la carrettera Austral si è dissolta all'improvviso l'orda di viaggiatori implacabili e super efficienti che seguivano la guida turistica come fosse stata la bibbia. Da Chiloé in poi non ho quasi più incontrato turisti occidentali: europei, nordamericani e oceanici (da Oceania), che dopo le visite e le escursioni comandate passavano il tempo in rigorosa ed esclusiva compagnia reciproca, senza mostrare alcun interesse per quello che della realtà locale non era menzionato dalla guida. Non ho mai visto uno di questi viaggiatori in un bar o in un ristorante frequentato dalla gente locale. Chiusi negli ostelli a parlare tra di loro, a cucinare secondo la loro cucina, a pianificare, guida alla mano, le future tappe del viaggio oppure a sbevazzare e fare festa, specialmente i più giovani e nelle città più grandi (le quali erano piene di locali appositamente adibiti a far casino, ma loro preferivano fare casino dentro gli ostelli). E quando uscivano frequentavano i locali e i ristoranti, spesso "etnici" (sottolineo le virgolette), appositamente concepiti per loro.
L'ho trovato un modo di viaggiare mantenendo le distanze, senza mescolarsi, guardando il mondo come dietro la vetrina di un museo o, qualche volta, la gabbia di uno zoo. Portandosi dietro il più possibile del proprio mondo e cambiando il meno possibile delle proprie abitudini. Compreso il ritmo.
Naturalmente ognuno viaggia e si muove come vuole e come può, l'importante è che nel viaggiare si porti rispetto alla gente del posto e all'ambiente. Quanto meno che non si producano danni.
Rimanere chiusi, anche in viaggio, nella cerchia di persone provenienti dal proprio paese o comunque con cui si ha in comune lo stesso stile di vita può anche essere il sintomo del timore per ciò che è fuori dal proprio mondo e che non si conosce. A me però ha dato molto di più la sensazione di semplice e distaccata mancanza di interesse per ciò che non fa parte del proprio modo di vivere e della propria cultura, e di un implicito atteggiamento di superiorità.
Io pure, di mio, ho sicuramente i miei timori e le mie remore nel mescolarmi e lasciarmi andare, che in parte nel corso dei mesi ho superato ed in parte no. Ciononostante non mi sento così legato al mio modo di vivere, al mio modo di mangiare (e di bere il caffè), alle mie abitudini, alla mia lingua, da non volervi o non potervi rinunciare, almeno per il periodo di un viaggio. Piuttosto, con tutti i limiti che ho, quello che cerco di fare è staccarmene. Ci riesco in parte, ma quando ci riesco sono contento e sento di guadagnarci molto.
Insomma, nei confronti di questo tipo di turisti mi sentivo molto poco in sintonia e col passare dei tempo ed il consolidarsi del mio modo di vedere le cose ho smesso di cercare un contatto anche con loro e anzi, mi sono mantenuto sempre più alla larga. Non è stato difficile perché anche da parte loro nei miei confronti c'era una naturale indifferenza ed era evidente che non appartenevamo alla stessa comunità di viaggiatori.
Già che ci siamo, per finire il discorso sull'affinità con i colleghi viaggiatori, posso dire che mi sono trovato più facilmente in sintonia, tra gli occidentali, con spagnoli e francesi, e molto bene mi sono trovato con i viaggiatori "nazionali", cileni e argentini. Ciò non toglie che qua e là mi sia rapportato piacevolmente anche con persone del mondo anglosassone, germanico, nordeuropeo ed oceanico, ma in generale ho avuto più facilità a entrare in sintonia con i latini, e credo non solo per la maggiore facilità di comunicazione linguistica che avevo con loro.
In ogni caso da Chiloé in poi negli ostelli ho trovato poco affollamento e tutt'altra popolazione, e ne sono stato felice. In molti casi non si trattava nemmeno di viaggiatori ma di residenti fissi, persone che per motivi di lavoro, studio o altro si dovevano fermare a lungo in una determinata città. Il turismo era prevalentemente nazionale, molti argentini e cileni, e tra gli occidentali viaggiatori fuori stagione o di lungo corso (gente che sta fuori da anni) con un approccio e un ritmo molto diversi dalla massa che avevo incontrato fino a quel momento. Così negli ostelli l'ambiente era ricco e interessante. Gli stessi proprietari o i ragazzi che vi lavoravano erano ben disposti a fare delle chiacchiere, e così il tempo passava piacevolmente e le visite turistiche passavano in secondo piano.

Quintay

Quintay è una caletta a poche decine di chilometri da Valparaiso, un piccolo villaggio di pescatori in una bella scenografia di costa rocciosa. Lungo la spiaggia diversi ristoranti che in estate richiamano una buona quantità di gente da Santiago e Valparaiso, ma senza intaccare troppo, credo, l'atmosfera tranquilla del posto. In ogni caso quando ci sono passato io la stagione turistica era già finita e di tranquillità ne ho trovata in abbondanza.
La cosa più interessante del posto però è il vecchio stabilimento per la lavorazione delle balene, che ora è un museo gestito dalla Fondazione Quintay con l'obiettivo di trasformarlo in un "centro di promozione di una cultura di rispetto del mare".
Il museo racconta la storia dello stabilimento, che fu aperto nel 1943 per investimento di un grosso gruppo industriale cileno. L'industria della balena era molto redditizia, vi si ricavavano un'infinità di prodotti per uso domestico e industriale. Non si buttava via niente, della balena.
Lo stabilimento funzionava a ciclo continuo e, considerata la pericolosità del lavoro, durante tutto il periodo in cui fu attivo a Quintay fu proibito il consumo di alcol (e questo fece la fortuna di una cantina situata appena fuori dal paese). Il lavoro era duro ma molto ben pagato, almeno il triplo rispetto a qualsiasi altra attività che si potesse svolgere nella zona ed i lavoratori vivevano in edifici di alto standard di comodità che la compagnia aveva costruito appositamente per loro. Nonostante questo quasi nessuno dei locali abbandonò la propria attività di pesca artigianale per lavorare nello stabilimento, che invece portò cambiamenti soprattutto negativi per la vita quotidiana e lavorativa della gente del posto. Per i danni che produceva alla pesca locale, per l'inquinamento e per l'odore nauseabondo. Quando gli abitanti di Quintay andavano a Valparaiso venivano individuati dall'odore di cui erano impregnati.
Lo stabilimento arrivò a lavorare, nell'anno di maggior produzione, più di 1600 balene e l'impresa arrivò a possedere 19 baleniere, ognuna delle quali poteva cacciare fino a sedici balene al giorno. Le balene uccise venivano trainate dalle navi fino alle vicinanze della costa e poi per mezzo di piccole lance venivano sospinte all'interno della baia, dove venivano fissate a delle boe e lasciate a galleggiare, mediante un sistema di iniezione di aria, in attesa di essere lavorate. A volte nella baia si accumulavano decine di balene e le acque e la costa diventavano di colore rosso sangue.
Nel 1965 lo stabilimento fu acquisito da una compagnia giapponese. Navi frigorifero iniziarono a fare la spola col Giappone, che è il praticamente il solo paese al mondo dove la carne di balena è considerata un alimento. Infine nel 1967 l'adesione del Cile all'accordo internazionale (firmato da tutte le nazioni del mondo escluse Giappone e Norvegia) che vietava la caccia alla balena pose fine alla storia dello stabilimento, che fu chiuso definitivamente.
Nel museo dei pannelli ricordano la presenza costante della figura della balena nella mitologia, nella religione e nella letteratura. Raccontano di quando la caccia era una forma di sussistenza per alcuni popoli, praticata come una lotta corpo a corpo, e di come nel tempo si sia trasformata in una industria vera e propria. L'era della caccia tecnologicizzata iniziò a metà dell'ottocento, quando si cominciarono ad utilizzare le baleniere a vapore e fu inventato l'arpione esplosivo, dotato di una granata che esplodeva pochi secondi dopo aver colpito l'animale. In seguito a ciò già nei primi anni del novecento il numero delle balene era già drasticamente diminuito ed in pochi anni si arrivò al limite dell'estinzione.
Del vecchio stabilimento sono rimasti solo i resti della struttura e gli scivoli e i piazzali dove le balene venivano trascinate e lavorate. Ho trovato tutto molto suggestivo e le ore che ho passato nel museo mi sono volate via senza che me ne rendessi conto, tanto che il custode che non si ricordava più che fossi lì quasi mi chiudeva dentro.


domenica 29 marzo 2009

Valparaiso

A Mendoza avevo lasciato l'estate piena: il giorno prima che partissi la temperatura era arrivata a 37 gradi, a Valparaiso invece ho trovato quel clima che dalle nostre parti si definisce "settembrino", e qui immagino si definisca "marzolino", con la tipica leggera foschia di inizio autunno. Da qualche tempo ad ogni tappa che faccio trovo un clima differente. L'organismo sembra essersi adattato, se dovessi ammalarmi a ogni cambio di stagione starei fresco.
Valparaiso è bellissima e soprattutto unica. Questa cosa l'ho avvertita immediatamente. Appena arrivato ho sentito rinascere tutto il piacere di essere in viaggio, la curiosità di sbirciare in ogni angolo e di annusare l'aria e non solo in senso olfattivo. Si sono stappati di nuovo i canali percettivi del viaggiatore, che negli ultimi tempi mi si erano leggermente ostruiti.
Per quanto molto scenografica Valparaiso non è una città bomboniera. Ma pur essendo un po' scrostata, sporca e sbiadita è piena di vita e di storia ed appartiene a quella categoria di città che hanno una propria atmosfera forte e inconfondibile, che sembra traspirare anche attraverso i muri.
Alcuni angoli della zona bassa intorno al porto mi hanno ricordato Genova. Le colline che salgono su ripide, le case colorate che viste dal basso sembrano costruite una sopra l'altra e i tanti ascensori a cremagliera che si arrampicano quasi in verticale non potevano non ricordarmi, e tanto, Lisbona. Una Lisbona del Sud America però, somigliante e completamente diversa allo stesso tempo.
E' anche una città dove bisogna fare un po' di attenzione. Il mimetismo in Cile non funziona, avrei avuto bisogno di un nonno mapuche. In Argentina la maggior parte della popolazione è di discendenza europea, ed abbastanza europeo è anche il modo di vivere, specialmente nelle città più grandi. Ogni tanto mi chiedono informazioni stradali, segno che il mio stato di turista non salta molto all'occhio. In Cile invece la discendenza mapuche è piuttosto evidente ed anche il modo di vita è meno proteso verso lo stile europeo, ed io risulto molto più chiaramente un turista. Un turista brasiliano però, e questa è una cosa che non riesco a spiegarmi. Non ho idea di come abbia fatto il mio spagnolo, anzi "spagnolo", ad assumere l'accento portoghese, però mi scambiano ripetutamente e con convinzione per un brasiliano. Per convincerli che sono italiano devo quasi tirare fuori il passaporto. Di autentici turisti brasiliani ne ho incontrati molti, e non mi sembra proprio di parlare come loro. Però se in tanti mi prendono per brasiliano un motivo dovrà pur esserci, anche se mi sfugge.
I pericoli di Valparaiso comunque sono relativi ed è sufficiente usare alcune precauzioni. Uscire con il meno possibile, meglio ancora niente, che possa essere rubato ed evitare determinate zone, specialmente di notte. Il che, in fondo, vale anche per la maggior parte delle città europee.
Del resto mi ha scritto un francese che avevo conosciuto a Villa O'Higgins raccontandomi che a Mendoza è stato rapinato della macchina fotografica. E Mendoza passa per una città sicura, certamente più di Valparaiso.
Proprio la macchina fotografica era il mio problema. Voluminosa e ingombrante com'è non passava inosservata. In effetti un giorno ho dovuto metterla via rapidamente, e rapidamente cambiare zona, perché intorno a me avevo iniziato a notare dei movimenti che non mi piacevano. A conferma di ciò, nel momento in cui la stavo infilando nello zaino una donna del posto mi ha detto che non era proprio il caso che girassi per di lì con quell'aggeggio in vista. Non mi era sembrata una zona rischiosa. Però si tende a considerare pericolose quelle zone che sembrano un po' più malmesse, questo invece sembrava un tranquillo quartiere residenziale, con case nuove e strade belle pulite. Ma come mi ha fatto giustamente notare un tipo a cui ho raccontato l'episodio, e che mi ha confermato la pericolosità di quella zona, i pericoli non vengono dalle case.
E così nei giorni successivi la macchina fotografica l'ho lasciata in ostello. Uscivo più leggero, in tutti i sensi, e andavo in giro a sbirciare su e giù per i vicoli senza più preoccupazioni. Durante questo viaggio già troppe volte non ho potuto fare foto come avrei voluto, una volta in più non mi ha cambiato niente, anzi, ci ho solo guadagnato in tranquillità. E poi della luce marzolina di Valparaiso non ci ho capito veramente niente. E' una luce strana, bisogna sempre fare i conti con la foschia e le nebbioline, ma soprattutto ovunque andassi mi trovavo sempre il sole negli occhi, anche dove ero sicurissimo che lo avrei avuto di lato o alle spalle. Non l'ho proprio capito come gira il sole di Valparaiso. E anche per i vicoli e i saliscendi, il momento giusto non lo trovavo mai. Insomma sarebbe stato necessario ancora del tempo per capire a che ora mi sarei dovuto trovare in un determinato posto all'appuntamento con la luce giusta. Ammesso che ne sarei mai venuto a capo perché veramente quel sole sembrava che se ne andasse dove gli pareva a lui.
Ho visitato la casa di Neruda, una casa chiaramente di artista, rampicante su quattro piani, che si trova nel punto più panoramico di Valparaiso. Da lì, incredibilmente, si vede ogni angolo della città e del porto. Sembra una magia.


Vista dalla camera del poeta

L'ambiente dell'ostello era molto gradevole. La gestione era familiare. Prima avevano un altro ostello sul quale avevano lavorato per anni, ristrutturando, restaurando e migliorando. Poi l'anno scorso un incendio l'ha distrutto completamente. L'edificio non era assicurato, nessuna compagnia assicura contro gli incendi le vecchie case di legno di Valparaiso, e lui che faceva l'assicuratore lo sapeva bene. Non ne hanno fatto una tragedia, lui ha ripreso a tempo pieno il vecchio lavoro di assicuratore, che non aveva mai abbandonato del tutto (la sua vera polizza contro gli incendi) ed hanno comprato questo nuovo ostello, che era in uno stato di semiabbandono, ed hanno ricominciato dall'inizio. Tutto questo lui me lo ha raccontato col sorriso e con una serenità che non si poteva credere in una persona che aveva appena perso tutto quello che aveva costruito in anni e anni di lavoro. Non essere troppo attaccati alle cose probabilmente paga, anche in termini di salute.
L'ultima sera mi hanno portato in un locale, una specie di ristorante ma che proprio un ristorante non è. Un posto dove si ritrova la gente di Valparaiso per suonare, cantare e ballare musica tradizionale cilena. Non sono spettacoli organizzati, è solo un luogo dove si incontrano spontaneamente per il puro piacere di cantare e suonare. Ci ho trovato soprattutto gente anziana ma mi hanno assicurato che il venerdì e il sabato ci sono anche molti ragazzi, che pure si interessano alla musica popolare. E' un locale dove mi poteva portare solo qualcuno del posto, un turista armato solo di guida non lo avrebbe mai scovato. Sono cose che danno significato al viaggio: entrare, invitati e ben accolti, nella realtà viva di un luogo. Me la sono goduta molto la mia ultima serata a Valparaiso, mangiando tocchetti di merluzzo fritti impanati.


vista valparadisiaca notturna


vista valparadisiaca diurna

giovedì 26 marzo 2009

Verso Valparaiso

Con una mossa a sorpresa, con cui mi sono spiazzato da solo, anziché proseguire verso nord ho tagliato di netto a ovest e sono andato a Valparaiso. Avevo deciso o no di andare a istinto? E così da Mendoza ho ripreso di nuovo la via della cordigliera. Ed ho aggiunto al passaporto ancora un po' di timbri cileni e argentini, che ormai non si contano più. Mi aspetto che prima o poi qualche doganiere mi chieda ma si può sapere cosa vai facendo?
I primi chilometri fuori da Mendoza sono stati tutto un vigneto ma avanzando verso la cordigliera il paesaggio si è inaridito velocemente. Inoltrandosi tra le montagne lo scenario si è fatto imponente. Le montagne qui sono alte, brulle e rocciose e le valli semidesertiche lungo cui si sale lasciano il segno nello sguardo del viaggiatore curioso. Le rocce cambiano continuamente di colore, dal nero, al rosso, al giallo, fino al verde. Per pochi istanti è comparso anche l'Aconcagua, la montagna più alta di tutte le americhe (modestia a parte).
Un po' di parentesi, attinenti.

Paso de Los Libertadores
Si chiama così questo passo che permette di collegare Mendoza con il porto di Valparaiso. E' la via di collegamento terrestre più importante e più sfruttata tra Cile e Argentina. L'altezza del passo è relativa, supera appena i tremila metri, poco al confronto con altri che si trovano più a nord e che sfiorano i cinquemila, ma nonostante questo durante l'inverno viene chiuso frequentemente per le nevicate e il rischio di valanghe e frane. I versanti di queste montagne brulle sono pieni di rocce enormi e di detriti, a vederli si ha una sensazione di crollo incombente, non si capisce su cosa siano appoggiati e come facciano a stare in equilibrio. Passarci sotto è inquietante.
In generale il transito attraverso i passi di frontiera andini non è agevole e, a parte le interruzioni invernali, si tratta di percorsi difficili e scomodi, spesso non asfaltati. Io sono transitato solo in due di questi passi, ma una cosa è farlo per una volta da turista che guarda avidamente il panorama dal finestrino, senza quasi accorgersi della scomodità del viaggio, un'altra cosa è andare avanti e indietro per queste strade guidando un camion. Sul versante argentino il dislivello è lieve e si sale lentamente lungo una valle, la discesa sul versante cileno è quasi un dirupo che si affronta con una serie infinita di tornanti in uno scenario che quasi non sembra terrestre.

Il Ferrocarril Trasandino
Il passo è attraversato anche da una ferrovia, ora in abbandono. A volte corre parallela alla strada, a volte si arrampica sui versanti delle montagne vicine. In alcuni tratti esegue dei passaggi virtuosi, quasi acrobatici. Doveva essere uno spettacolo attraversare le Ande con quel treno. Ogni tanto una stazione fantasma, qualche volta con un piccolo villaggio intorno, pure quello abbandonato. In alcuni punti i binari sono stati sepolti dalle frane, ma per la maggior parte la linea è ancora perfettamente visibile. Questa ferrovia ha avuto una storia piena di difficoltà. Del resto solo a vederla dà la sensazione di un azzardo. Una ferrovia che sfidava un territorio come quello non poteva avere vita facile. I lavori erano iniziati nel 1887 ed il viaggio inaugurale è stato nel 1910. A vedere dove si inerpicano quei binari credo che davvero per quell'epoca sia stato un capolavoro di ingegneria ed un'impresa ciclopica. Ma prima ancora era stato necessario un lavoro lungo e delicato di diplomazia, per via delle dispute territoriali che ci sono sempre state tra Cile e Argentina. Nei tratti più ripidi il treno saliva con l'aiuto di una cremagliera e per sostenere lo sforzo del locomotore le traversine erano di acciaio. Lo scartamento era ridotto a un metro per permettere un raggio di curva più stretto e nelle stazioni a valle i passeggeri dovevano trasbordare su convogli a scartamento normale. Nei punti più esposti erano stati costruiti sbarramenti e gallerie di protezione, ma nonostante questo le valanghe, le frane e i corsi d'acqua che scendevano selvaggiamente dalle montagne allo scioglimento dei ghiacci provocavano danni continui e continue interruzioni della linea. E continui costi da sostenere.
Con il passare degli anni la concorrenza del trasporto aereo e stradale si fece sempre più forte. Fu migliorata la percorribilità del passo stradale, che prima poteva essere attraversato solo da automobili, con tempi lunghissimi e su strade polverose. Immagino cosa potesse essere passare per di lì in automobile negli anni trenta. Ma quando iniziarono ad asfaltare vari tratti di strada cominciarono a partire i primi servizi di bus di linea, che col tempo accorciarono sempre di più i tempi di percorrenza ed iniziarono a risultare più economici. Nel 1979 la ferrovia ha cessato il servizio di trasporto passeggeri, mentre ha continuato con le merci fino al 1984. Poi l'ennesima valanga ha provocato danni che non sono più stati riparati ed è stata abbandonata definitivamente.

Progetti per il futuro
Oltre a progetti più ordinari e modesti come asfaltare i molti tratti ancora sterrati dei vari passi andini e varie migliorie stradali, ho letto che si sta lavorando sopra a grandi investimenti.
Le frequenti interruzioni invernali (da 45 a oltre 60 giorni di chiusura all'anno) ostacolano notevolmente il flusso commerciale, non solo tra Cile e Argentina. La globalizzazione mondiale, l'internazionalizzazione della produzione, la circolazione dei beni, le nuove opportunità, la dinamica del sistema, queste cose qua.
Non è più sufficiente la sola uscita per l'atlantico della merce argentina, e brasiliana, senza contare la Bolivia che non ha uno sbocco sul mare, e la sola uscita per il pacifico per la merce cilena, e peruviana, e così via dicendo. I passi di frontiera così come sono ora rappresentano una strozzatura per la fluida circolazione dei beni. Ci sono i mercati asiatici da raggiungere in un battibaleno, e gli stessi asiatici che poterebbero investire più facilmente in Sud America.
Cosicché si sta studiando un collegamento più rapido tra il pacifico e l'atlantico. Una specie di canale di Panama attraverso le Ande. Anzi, più di uno. "Corridoi Bioceanici" li definiscono.
Il progetto è di riaprire addirittura il Ferrocarril Trasandino, ma con una portata di merci molto maggiore ed escludendo la parte più alta del percorso, che andrà sostituita da un tunnel di 23 km a una quota molto più bassa, in modo di evitare i rigori dell'inverno e le relative chiusure del passo. L'energia per mandare avanti avanti tutta la baracca la si otterrebbe da una nuova enorme diga.
Il progetto interesserebbe anche altri paesi del Sud America come Brasile, Paraguay, Cile, Perù e Bolivia, e anche diversi paesi asiatici, principalmente Corea e Cina. Loro metterebbero la tecnologia, compresi i treni, e valuterebbero investimenti industriali in zona, oltre ad essere interessati all'accesso diretto alle materie prime del Sud America.
E così c'è un movimento di delegazioni pubbliche e gruppi industriali privati che si incontrano tra Asia e Sud America e cercano di mettersi d'accordo. Sia il Governo argentino che quello cileno hanno dichiarato l'opera di pubblica utilità. Per la verità pochi anni fa un precedente progetto analogo era stato addirittura appaltato, ma l'asta era andata deserta. Ora è stato rivisto e modificato e da quanto leggo in giro sembrerebbe andare avanti. Parallelamente esistono altri due progetti di tunnel ferroviari attraverso le Ande, uno più a nord, che dovrebbe avere come sbocco il porto di Antofagasta, e l'altro più a Sud, in Patagonia, tra Neuquen e Valdivia. Se tutto questo sarà realizzato non lo so, ma insomma, se il mercato globale lo esige non ci sono Ande che tengano, ci si fa un buco in mezzo e si passa dritti per dritti.

Chiuse la parentesi trasandine. Il mio personale ennesimo attraversamento della cordigliera si è svolto in fase di veglia fino a poco dopo la serie di tornanti che scende sul versante cileno, dopodiché sono crollato. Le ore che passavo a Mendoza dalla zia si protraevano fino a notte fonda, lei ha l'abitudine di passare le notti quasi in bianco, leggendo o guardando la tv italiana. Però poi a dormire durante il giorno non ci riuscivo, e così sono ripartito da Mendoza con una buona quantità di sonno accumulato. La discesa verso Valparaiso me la sono dormita quasi tutta. Ogni tanto aprivo gli occhi e vedevo bellissimi scenari della valle dell'Aconcagua. Cercavo con tutte le forze di mantenere gli occhi aperti ma non c'era niente da fare. In uno dei brevi risvegli mi è sembrato che stessimo attraversando piantagioni di caffé, ma forse me lo sono solo sognato. Direi che è molto probabile che me lo sia sognato.
A Viña del Mar, che è praticamente attaccata a Valparaiso, il bus si è fermato per dieci minuti e ne ho approfittato per sgranchirmi le gambe e cercare di svegliarmi. Una signora cilena mi ha parlato per tutto il tempo. I cileni parlano alla velocità della luce: ogni volta che arrivo in Cile mi ci vuole del tempo per fare l'orecchio e iniziare a capire qualcosa. La signora parlava veloce anche tra i cileni. Rintronato dal sonno come ero le facevo di si o di no con la testa a seconda se il suo tono sembrava richiedere una convalida in forma affermativa o negativa, ma non ho capito una parola di tutto quello che ha detto e non la minima idea neanche di che argomento parlasse. Però quel fiume di parole alla fine mi ha svegliato e così quando sono sceso dal bus a Valparaiso ero abbastanza operativo e in grado di trovarmi un posto per dormire.

mercoledì 25 marzo 2009

Comunicato rassicurante

Va tutto bene! Faccio solo un po' di fatica a scrivere, non trovo il tempo, il luogo, l'ispirazione, il momento, le parole... Ma presto arriveranno gli aggiornamenti. Per una geolocalizzazione: ora mi trovo a Cafayate, nella provincia di Salta. E il racconto è rimasto a Mendoza: di nuovo all'inseguimento.

lunedì 9 marzo 2009

La seconda parte del viaggio

Nelle ultime settimane ho attraversato diverse zone che avrebbero meritato una visita più accurata. Dopo Chiloé, la Regione dei Laghi cilena: per il paesaggio, fatto di boschi, laghi e vulcani, e perché è la zona dei Mapuche.
I Mapuche sono l'unico popolo originario dell'America Latina che ha sempre respinto l'invasione spagnola, così come prima aveva resistito all'espansione dell'impero inca. Il territorio mapuche fu assimilato solo al momento della formazione degli stati di Cile e Argentina, per mezzo di occupazione illegale (ma favorita dai governi) delle terre da parte di privati, accordi disattesi, abusi, negazioni di diritti e vari inganni. Oggi esiste ancora una popolazione di circa un milione di individui, che vivono tra Cile e Argentina, spesso in condizioni di emarginazione e miseria nelle città più grandi. Alcune comunità hanno però saputo mantenere in vita lingua e tradizioni, e diverse organizzazioni si battono per tutela e riconoscimento di cultura e diritti.
Di nuovo sarebbe stato bello conoscere ed approfondire questo tema sul posto. Così come sarebbe stato bello salire sopra a qualche vulcano, andare in giro tra i laghi, conoscere i dintorni di San Rafael, immergersi nella pampa, visitare estancias o conoscere altre città.
In realtà in ogni angolo del Sud America ci sarebbero infiniti motivi per fermarsi a lungo: storia, storie, paesaggi, meraviglie naturali e persone da conoscere.
Però per questo viaggio ho molto tempo, ma non tempo illimitato. Non ho nessun rimpianto per averne trascorso così tanto al sud. Mi è piaciuto viaggiare come ho viaggiato laggiù. Col tempo però ho realizzato alcune cose.
Le aspirazioni fotografiche ho dovuto abbandonarle quasi subito, e inizialmente è stata una delusione. Ma viaggiando in bus non avevo la possibilità di fare un lavoro come quello che avevo in mente, ammesso che fossi stato capace di farlo, e noleggiare continuamente auto non me lo potevo permettere. Mi sono rassegnato a quello che passava il convento, le poche volte che mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto con la luce giusta, ma in generale ho avuto un rapporto molto poco entusiastico con la fotografia, e con la mia stessa, pesante, attrezzatura. Alla fine, un po' a fatica, sono riuscito a rilassarmi. Mi ero stancato di vedere paesaggi straordinari fuori dal finestrino del bus e provare solo frustrazione per non potermi fermare a fare foto. E così ho detto al diavolo la fotografia, però almeno ho recuperato il piacere di guardare.
Ho cercato di seguire le tracce di Alberto De Agostini, con risultati abbastanza scarsi. Seguirle sul territorio era un'impresa impossibile per me, e così ho cercato persone che lo avessero conosciuto, per sapere qualcosa di lui sotto l'aspetto umano, al di là dell' esploratore. Ma non ho raccolto gran che.
Mi sono interessato alla storia e alla condizione attuale delle quattro popolazioni indigene che vivevano in Terra del Fuoco e nel sud della Patagonia e questo invece mi ha appassionato e coinvolto molto. Ho raccolto vario materiale, di cui non so neanche cosa farò, ho parlato con molte persone, e mi è molto piaciuto farlo.
Ma ad un certo punto ho capito che dovevo azzerare tutto, progetti, aspettative, propositi, fantasie, tutto quello che avevo in mente sopra a questo viaggio prima di partire. Mi è risultato chiaro che anche tutto questo frenava la mia libertà, mi portava a muovermi in direzioni limitate e pregiudicava la possibilità di cogliere tutto quello che di imprevedibile sarebbe potuto accadere da solo.
E così ho considerato terminata la prima parte del viaggio ed ho deciso di muovermi verso nord, senza un progetto particolare, né fotografico né indagatorio sopra a nulla, solo seguendo l'istinto che mi diceva, per l'appunto di andare a nord.
Perché tanta voglia di nord me lo sono chiesto durante le lunghe piogge sulla carretera Austral. Non che trovare una risposta fosse tanto importante: avevo deciso di assecondare l'istinto e questo bastava, ma solo per curiosità, visto che di tempo a disposizione ne avevo. E così ho capito che non era solo voglia di caldo, né che mi ero stancato di vedere ghiacciai fiordi boschi fiumi cascate montagne e laghi. Di tutto questo non ci si stanca mai. Semmai ne avevo lo sguardo pieno e ne ero appagato. Ma stanco no. Avevo solo voglia di respirare un'altra atmosfera, di vedere un altro scenario e di sentire, anche sulla pelle, sensazioni diverse. Il deserto subtropicale andino (non lo so mica se si chiama così) mi attirava semplicemente molto.
La risalita è stata lenta. Col senno di poi direi che forse ho un po' sbagliato strategia. Perché ora, spiacevolmente, mi ritrovo a fare i conti delle settimane che mi restano. Magari se invece che lungo la carretera Austral fossi risalito più velocemente per il versante argentino mi sarebbe rimasto più tempo per il nord. Ma del resto non potevo sapere che avrei trovato tanta pioggia. La mia idea era di risalire tranquillamente e guardandomi intorno, e non mi pareva poi tanto male. Il problema semmai è che ho vissuto questa ultima parte del viaggio come una fase di transizione, una transizione che forse si è prolungata un po' troppo. Mi sentivo in transito, e così non mi sono immerso dentro ai luoghi dove passavo con la stessa intensità e curiosità con cui avevo affrontato i primi due mesi di viaggio.
Ora, dopo questa pausa familiare, inizierà davvero la seconda parte del viaggio. I tempi saranno un po' più ristretti rispetto a come avrei desiderato, ma l'importante sarà pensarci il meno possibile.

Il ricongiungimento

Da Valdivia a San Martin de los Andes sono state dieci ore di bus, alcune su strade sterrate attraverso un passo andino. Il viaggio ha compreso alcuni inconvenienti tecnici: prima una foratura e poi un problema ai freni, al quale ho cercato di non pensare più nei chilometri seguenti. All'inizio della salita mi sembrava quasi di essere sull'Appennino, salendo ulteriormente, però, l'entrata in scena di un altro inequivocabile vulcano, il Lanin, e del bosco di araucarie ha conferito al paesaggio un aspetto molto più andino.
Dopo il confine è seguito un lungo tratto su un bellissimo altipiano, sempre col vulcano sullo sfondo, poi ho rivisto di nuovo un po' di steppa, fino ad arrivare San Martin de los Andes, una bella città in riva a un lago e circondata dalle montagne. Ero di nuovo in Patagonia. La Patagonia argentina si spinge più a nord di quella cilena. Sul versante cileno, alla stessa altezza, ero già nella Regione dei Laghi. Una Patagonia molto diversa da quella del sud, però, per il clima e per lo scenario. A San Martin mi sono fermato un giorno. Camminando poco più di un'ora, attraversando una riserva Mapuche, sono arrivato su una spiaggia in riva al lago con un isolotto di fronte. L'acqua era calda abbastanza e così ho svolto attività balneare.
Dopo San Martin la mia intenzione era di passare per la pampa. Volevo almeno vederla, la pampa argentina. Avevo individuato come obiettivo la città di Santa Rosa, facendo tappa intermedia a Neuquen. Appena arrivato a Neuquen (altre otto ore di viaggio) ho cercato tra tutte le compagnie un bus che fermasse a Santa Rosa ad un orario decente, ma i bus che partono da Neuquen e passano per Santa Rosa hanno tutti come destinazione finale Buenos Aires, dove arrivano in mattinata. Di conseguenza tutti si fermano a Santa Rosa in piena notte. Si poteva anche fare, avrei dovuto cercare un posto per dormire già da Neuquen e riservarlo. Ma da qualche giorno avevo, purtroppo, iniziato a fare un po' di conti sul tempo che mi rimaneva, e alla fine, vista anche questa scomodità, ho deciso di tirare ancora verso verso nord ed ho cambiato la mia destinazione con San Rafael, già nella provincia di Mendoza, ed è stata un'altra tirata di undici ore. A San Rafael pensavo di fermarmi uno o due giorni, i dintorni mi erano stati descritti come molto belli e volevo anche riprendermi un po' da tanto tempo seduto in bus. Però ho iniziato a star male ed ho passato alcune giornate, e soprattutto alcune nottate, molto poco piacevoli. A San Rafael dormivo al piano di sopra di un letto a castello, col soffitto molto vicino. Che il calore sale verso l'alto ho potuto sperimentarlo di persona: intorno al mio letto si era formato un microclima di quaranta gradi, ma forse anche cinquanta. Dopo la seconda nottata tribolata ho deciso di salire direttamente a Mendoza, non stavo ancora bene, ma un'altra notte in quelle condizioni non mi sentivo in grado di passarla.
E così finalmente persona fisica e voce narrante si sono ricongiunte. A Mendoza mi sto dedicando alla conoscenza del ramo argentino della famiglia, ormai sono fermo qui da una settimana e penso che riprenderò la strada tra un paio di giorni.



problemi tecnici

giovedì 5 marzo 2009

L'inseguimento

Il distacco aumenta: la persona fisica è arrivata a Mendoza, un po' malconcia per via di un'infezione intestinale che si è poi allargata ad altri settori dell'organismo, la voce narrante ha appena lasciato Chiloé. Effettivamente negli ultimi tempi ho anche allungato il passo, però a Mendoza tengo famiglia e mi fermerò per un po' di giorni, cosicché forse il ricongiungimento potrà avvenire.
Bene, in una mattina parzialmente soleggiata, ma di tanto in tanto anche piovosa, ho lasciato Chiloé. Il tratto di mare da attraversare pullulava di animali volanti e nuotanti: anatre varie, albatros, i soliti gabbiani, altri volatili non identificabili (da me), e poi leoni marini e pinguini che nuotavano a pochi metri dalla barca. Non avevo mai visto un tratto di mare così trafficato.
A proposito di animali volanti, i cieli delle città di Chiloé e quelli di Puerto Montt e Valdivia erano pieni di avvoltoi, che da queste parti sono animali rispettati e non godono di quella certa fama sinistra.


avvoltoio urbano

Puerto Montt è una città abbastanza grande, caotica e piena di traffico, uno scenario a cui non ero più abituato. Il primo impatto non è stato neanche male, visivamente. La città si affaccia sul mare ed è circondata da un semicerchio di colline piene di case. Tanti piccoli negozi e mercati e gran brulichio di gente durante il giorno, ma alle nove di sera era tutto chiuso e le strade erano molto buie. Per questo motivo c'è chi la chiama Muerto Montt. La mancanza di vita notturna per me non era un problema, però dopo tanto tempo mi sono ritrovato ad andare in giro con un po' di circospezione.
Da Puerto Montt sono andato in giornata in visita al vulcano Osorno, che a differenza di quello di Chaitén vive un periodo di tranquillità (del resto il vulcano Chaitén veniva da più di novemila anni di riposo). Apro una parentesi.


il molto vulcano Osorno

I vulcani andini
Lungo tutta la dorsale andina ci sono centinaia di vulcani attivi potenzialmente molto pericolosi, che hanno la caratteristica di attraversare fasi di riposo molto lunghe, anche di diverse migliaia di anni, tra un'eruzione e l'altra. Per questo motivo non si conosce nemmeno il numero esatto di quelli che sono realmente attivi. Ad esempio nella zona di Chaitén in tanti mi hanno detto che nessuno sapeva che quella montagna fosse un vulcano. Questo in realtà non è vero: i vulcanologi sapevano che l'ultima attività del vulcano risaliva a più di novemila anni fa, e nelle stesse immagini di Google Earth, che risalgono a prima dell'eruzione, il cratere si vede molto bene. Alcuni vulcani, come l'Osorno, hanno una forma conica inconfondibilmente vulcanica, altri no, come questo:


l'apparentemente meno vulcano Tronador

Altre montagne dalla forma conica sono state a lungo scambiate per vulcani, pur non essendolo. Tutto questo per dire della scarsa conoscenza che c'è sopra a questi vulcani, sia da parte di chi abita nelle vicinanze che da parte degli addetti ai lavori.
Quelli che si trovano più vicini alle città più grandi sono monitorati stabilmente, ma negli ultimi decenni in Cile sono sorti molti nuovi insediamenti in zone andine che prima erano quasi completamente spopolate. Ad esempio molti dei villaggi e delle città che ho incontrato lungo la carretera Austral sono nati dopo gli anni sessanta. In conclusione la fascia di popolazione esposta al rischio vulcanico non è trascurabile.

Chiusa parentesi. Sul vulcano Osorno, volendo, si poteva anche salire, mi hanno detto che per arrivare in cima ci sarebbero volute solo tre ore. Non mi fido più dei tempi di percorrenza che mi vengono dati, ma anche fossero state quattro si poteva fare lo stesso. Sarebbero stati necessari i ramponi ed un minimo di attrezzatura, che però si sarebbe potuta noleggiare. Ma andare da soli probabilmente non era il caso e di andare in processione in un'escursione con guida non me ne andava per niente. E in generale non mi sentivo in vena di prodezze. Anzi, ho trovato la spiaggia di un lago così invitante che buona parte del tempo nelle vicinanze del vulcano l'ho passata lì, a panza per aria, a godermi un bel venticello quasi tiepido.
Da Puerto Montt sono ripartito senza troppi rimpianti. Lungo la strada per Valdivia ho visto per la prima volta dei campi coltivati. La vegetazione, salendo verso nord, era molto cambiata, come il clima. Sulla carretera Austral, per il poco che ho potuto vedere, era così rigogliosa che ricordava qualcosa di tropicale. Attraversando le Ande il clima si era fatto umido e piovoso, ma le temperature erano rimaste sempre piuttosto basse. Invece, quando sono sceso dal bus a Valdivia, che è solo poco più a nord di Puerto Montt, ho trovato improvvisamente l'estate piena. Per carità non mi sono lamentato, era da tanto che desideravo un po' di caldo, ma così all'improvviso non me l'aspettavo e il mio organismo ha avuto qualche difficoltà ad adattarsi.
Valdivia è una città universitaria, anche se gli studenti erano tutti in vacanza, molto più tranquilla di Puerto Montt e molto più turistica, ma di turismo solo cileno. Una volta uscito dalla carretera Austral non ho quasi più incontrato un turista "occidentale". I tanti tedeschi che ho visto a Valdivia e dintorni erano perfettamente tedeschi nell'aspetto ma cileni di nascita e di passaporto. In quella zona del Cile c'è stata una forte immigrazione di tedeschi fin dalla fine dell'ottocento. Non a caso è piena di birrerie.
Al mercato del pesce di Valdivia decine di leoni marini passano il tempo aspettando gli scarti e azzuffandosi ferocemente per un posto buono sulla banchina. Al sud molte agenzie turistiche offrivano escursioni a pagamento verso le colonie di leoni marini, qui mi sbadigliavano davanti alla faccia che gli potevo vedere le tonsille. Certo il mercato del pesce di Valdivia non è il loro ambiente naturale, ma in fondo sempre leoni marini sono, e se non c'erano le inferriate a separarli dal marciapiede venivano a rubarti il panino dalle mani.
Da Valdivia ho fatto un'escursione, non organizzata, verso Niebla e Corral, dove stanno ancora in piedi parte delle fortificazioni spagnole. Una giornata da turista zainetto in spalla, un po' boccheggiante per la novità improvvisa dell'estate. Alla fine del seicento gli spagnoli avevano costruito un sistema di 17 fortezze per difendere la baia di Valdivia dagli attacchi dei pirati e dei corsari, principalmente olandesi, che avevano più volte saccheggiato le colonie ripercorrendo le tracce di Francis Drake del secolo precedente. Ma dopo la costruzione delle fortezze incursioni dal pacifico non ci sono più state e i tanti cannoni, tutti puntati verso il mare, non hanno mai sparato. La beffa finale è stata che quando i cileni, nella loro guerra di indipendenza, nel 1820 hanno preso Valdivia e tutto il territorio circostante, hanno attaccato all'improvviso e da terra, e i cannoni ancora una volta si sono rivelati inutili.
Corral in particolare è un vero villaggio di pescatori, la cui atmosfera non è intaccata dai pochi turisti in visita alla fortezza. Un altro posto che avrebbe meritato almeno un giorno di sosta. Ma tant'è, la persona fisica inseguiva il nord ed è ripartita subito, la voce narrante insegue la persona fisica e fa lo stesso.


bacetto