martedì 14 aprile 2009

Quintay

Quintay è una caletta a poche decine di chilometri da Valparaiso, un piccolo villaggio di pescatori in una bella scenografia di costa rocciosa. Lungo la spiaggia diversi ristoranti che in estate richiamano una buona quantità di gente da Santiago e Valparaiso, ma senza intaccare troppo, credo, l'atmosfera tranquilla del posto. In ogni caso quando ci sono passato io la stagione turistica era già finita e di tranquillità ne ho trovata in abbondanza.
La cosa più interessante del posto però è il vecchio stabilimento per la lavorazione delle balene, che ora è un museo gestito dalla Fondazione Quintay con l'obiettivo di trasformarlo in un "centro di promozione di una cultura di rispetto del mare".
Il museo racconta la storia dello stabilimento, che fu aperto nel 1943 per investimento di un grosso gruppo industriale cileno. L'industria della balena era molto redditizia, vi si ricavavano un'infinità di prodotti per uso domestico e industriale. Non si buttava via niente, della balena.
Lo stabilimento funzionava a ciclo continuo e, considerata la pericolosità del lavoro, durante tutto il periodo in cui fu attivo a Quintay fu proibito il consumo di alcol (e questo fece la fortuna di una cantina situata appena fuori dal paese). Il lavoro era duro ma molto ben pagato, almeno il triplo rispetto a qualsiasi altra attività che si potesse svolgere nella zona ed i lavoratori vivevano in edifici di alto standard di comodità che la compagnia aveva costruito appositamente per loro. Nonostante questo quasi nessuno dei locali abbandonò la propria attività di pesca artigianale per lavorare nello stabilimento, che invece portò cambiamenti soprattutto negativi per la vita quotidiana e lavorativa della gente del posto. Per i danni che produceva alla pesca locale, per l'inquinamento e per l'odore nauseabondo. Quando gli abitanti di Quintay andavano a Valparaiso venivano individuati dall'odore di cui erano impregnati.
Lo stabilimento arrivò a lavorare, nell'anno di maggior produzione, più di 1600 balene e l'impresa arrivò a possedere 19 baleniere, ognuna delle quali poteva cacciare fino a sedici balene al giorno. Le balene uccise venivano trainate dalle navi fino alle vicinanze della costa e poi per mezzo di piccole lance venivano sospinte all'interno della baia, dove venivano fissate a delle boe e lasciate a galleggiare, mediante un sistema di iniezione di aria, in attesa di essere lavorate. A volte nella baia si accumulavano decine di balene e le acque e la costa diventavano di colore rosso sangue.
Nel 1965 lo stabilimento fu acquisito da una compagnia giapponese. Navi frigorifero iniziarono a fare la spola col Giappone, che è il praticamente il solo paese al mondo dove la carne di balena è considerata un alimento. Infine nel 1967 l'adesione del Cile all'accordo internazionale (firmato da tutte le nazioni del mondo escluse Giappone e Norvegia) che vietava la caccia alla balena pose fine alla storia dello stabilimento, che fu chiuso definitivamente.
Nel museo dei pannelli ricordano la presenza costante della figura della balena nella mitologia, nella religione e nella letteratura. Raccontano di quando la caccia era una forma di sussistenza per alcuni popoli, praticata come una lotta corpo a corpo, e di come nel tempo si sia trasformata in una industria vera e propria. L'era della caccia tecnologicizzata iniziò a metà dell'ottocento, quando si cominciarono ad utilizzare le baleniere a vapore e fu inventato l'arpione esplosivo, dotato di una granata che esplodeva pochi secondi dopo aver colpito l'animale. In seguito a ciò già nei primi anni del novecento il numero delle balene era già drasticamente diminuito ed in pochi anni si arrivò al limite dell'estinzione.
Del vecchio stabilimento sono rimasti solo i resti della struttura e gli scivoli e i piazzali dove le balene venivano trascinate e lavorate. Ho trovato tutto molto suggestivo e le ore che ho passato nel museo mi sono volate via senza che me ne rendessi conto, tanto che il custode che non si ricordava più che fossi lì quasi mi chiudeva dentro.


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