venerdì 30 gennaio 2009

Vacanza dal viaggio

Ci eravamo lasciati a Porvenir, ora sono a Rio Gallegos. In mezzo c'è stato di nuovo Rio Grande. Sono tornato là perché volevo incontrare il rappresentante di una comunità indigena e perché dovevo incontrare un dentista per mettere un'altra toppa sul dente che perde i pezzi.
Ho rivisto Graciela, che ora non gestisce più l'Hostel Argentino, ho conosciuto i suoi amici ed ho passato alcuni giorni nelle case e insieme alle famiglie del posto. Per alcuni giorni ho staccato la spina ed è stata come una vacanza anche dal viaggio.
Tra Porvenir e Rio Grande non c'erano collegamenti diretti ed avevo due alternative: o passare di nuovo per Punta Arenas, e tra tutto ci sarebbero voluti tre giorni per via dei pessimi incastri di orario tra ferry e bus di linea, oppure chiedere un passaggio. Ho scelto la seconda alternativa.
La gente è ben disposta a dare passaggi, soprattutto chi lavora nelle estancias. Le distanze sono grandi e caricano volentieri passeggeri occasionali per fare parte del viaggio in compagnia. Il problema è che in quella zona le strade sono molto poco frequentate, a Porvenir la prima macchina che andava nella mia direzione è passata dopo più di due ore. Era un estanciero che ritornava da Punta Arenas, dove aveva venduto alcune pecore delle ottomila che lui ne ha, e la sua è solo una piccola estancia. Dopo aver costeggiato la Baia Inutil (che mi aveva sempre incuriosito per via del nome) mi ha lasciato in un bivio un centinaio di chilometri dopo Porvenir.
Avevo sempre desiderato trovarmi in posto sperduto in mezzo alla steppa, e sono stato accontentato. Però qualche minuto di perplessità iniziale ce l'ho avuto, perché nel mio desiderio non consideravo di essere completamente appiedato. Poi mi sono reso conto che era un bivio buono, perché in effetti qualcuno passava, ogni tanto. E solo a cinque chilometri c'era un'estancia. Le Estancias in Cile (e penso anche in Argentina) sono obbligate per legge ad offrire ospitalità al viandante che si presenti dopo le sei del pomeriggio. E, a parte l'obbligo di legge, mi dicono che hanno un concetto di ospitalità molto radicato. Immagino che gente che vive isolata in mezzo alla steppa abbia piacere di ricevere un'occasionale ospite, e soprattutto che sappia cosa significa passare una notte in un ambiente come quello. Comunque io avevo anche la tenda e un po' di cose da mangiare: per male che fosse andata non sarei morto né assiderato né di fame.
Fatt'è che in fondo me la sono goduta. Dopo un po' che aspettavo è passato un ragazzo argentino in bicicletta, si è fermato e siamo rimasti a parlare un bel po' (l'impressione è che in mezzo alla steppa oltre allo spazio si dilati anche il tempo).
E' partito da casa con 27 pesos, che sono come sei euro. Ogni tanto si ferma a lavorare, preferibilmente in qualche estancia, per tirare su il minimo di denaro indispensabile per proseguire. Il suo progetto è un viaggio di quattro anni, per imparare cose, conoscere il suo paese e possibilmente anche altri. Ad Ushuaia potrebbe avere la possibilità di imbarcarsi su un cargo e pagarsi il viaggio fino alla Nuova Zelanda lavorando a bordo. E anche in Nuova Zelanda vorrebbe lavorare in qualche estancia, perché, dice, là ci sono i veri maestri. In alternativa ha in mente di passare il prossimo inverno in una comunità di indigeni che già conosce, un po' più a nord, a lavorare con loro e ad imparare da loro. Ha lo spirito giusto e la mente lucida e sono sicuro che ce la farà, se non nel particolare obiettivo di arrivare in Nuova Zelanda, ad ottenere quello che desidera dal suo viaggio.
Dopo qualche ora passata nella forma di un puntino in mezzo alla steppa ho trovato un altro passaggio da un'altra camionetta di estancieros, e poi il terzo da una squadra di operai della manutenzione delle strade, che mi hanno portato fino al confine con l'Argentina.
Lì ho parlato un po' con gli agenti dell'antidroga ed ho fatto amicizia col cane annusatore. E' finita che sono stati loro a trovarmi un passaggio fino a Rio Grande: al termine dei loro controlli chiedevano a tutti gli autisti se erano disposti a caricare un autostoppista (anzi, un autosteppista) italiano.
Mi ha portato a Rio Grande un camionista che veniva da Buenos Aires e che dopo tre giorni di viaggio aveva voglia di fare due chiacchiere con qualcuno. Sono arrivato con lo zaino fortemente impregnato di odore ovino, avendo viaggiato (lo zaino) nel cassone di camionette che abitualmente trasportano pecore.
Durante la mia vacanza sono ritornato anche a Tolhuin, ospite in una casa sulla riva del lago Fagnano. Sulla strada verso Tolhuin abbiamo incontrato di nuovo Matias, il ragazzo argentino in bici, che si è aggregato alla comitiva con la qualifica di "asador" (cioé ha cucinato l'asado). E che dire, sono state belle giornate.
A Rio Grande si è conclusa la prima parte del mio viaggio e probabilmente si è conclusa anche la fase dell'itinerario a spirale sbilenca. Al momento ho chiare le prossime due o tre tappe ma non ho idea di dove andrò poi, ma il mio approccio ora è cambiato e smetterò di seguire tracce o cercare notizie sopra a determinati argomenti come ho fatto fino ad ora.
Il viaggio tra Rio Grande e Rio Gallegos e’ durato circa otto ore. Adesso che mi sono abituato alle distanze e ai tempi di percorrenza di queste zone posso considerarlo breve. Il problema semmai e’ che e' stato necessario passare di nuovo per il Cile, ma pur essendo solo un transito si devono affrontare ben quattro controlli di frontiera. Uno sfinimento di attese, code, controlli e timbri sul passaporto, che si sta riempiendo a dismisura di timbri argentini e cileni.
Nel bus ho conosciuto un paraguaiano che stava andando a correre una mezza maratona a Comodoro Rivadavia, un po' più al nord. Mi ha raccontato che era stato un atleta di buon livello, poi si era trasferito a Ushuaia a lavorare come carpentiere ed aveva smesso con l'atletica. Ora ha ripreso ad allenarsi e a fare gare, i risultati e i tempi sono buoni e il suo sogno sarebbe quello di arrivare all'olimpiade. Purtroppo non mi ricordo il suo nome e non potrò controllare se ce l'avrà fatta. Mi ha raccontato che a Ushuaia si corre una maratona, e provo a immaginare cosa può essere una maratona con quel vento. Come raddoppiare la distanza, penso.
Rio Gallegos è l'ennesima città dove "non c'è niente da vedere". Io onestamente non riesco a cogliere tutte queste differenze per esempio tra Ushuaia e Punta Arenas, che sono città "interessanti", e Rio Grande e Rio Gallegos, che sono trascurabili. L'unica differenza la fanno i dintorni, ed anche questa per il mio modo di vedere è molto relativa. Ma è perché io trovo la steppa altrettanto affascinante che una catena montuosa o una colonia di pinguini. Finora i centri abitati che ho trovato più interessanti sono Puerto Williams e Porvenir, i più piccoli dove sono stato e dove ho avvertito una forte sensazione di luogo remoto. A Porvenir, mentre cercavo l'ennesimo vecchio salesiano che doveva aver conosciuto di persona De Agostini, ho incontrato un tipo che custodiva la casa di una professoressa in pensione, che ora si è trasferita a Santiago. Mi ha fatto vedere la casa della professoressa, una delle case più vecchie di Porvenir, e poi mi ha invitato a prendere un caffé a casa sua, e insomma quasi tutto il pomeriggio l'ho passato a farmi raccontare cosa da lui e da sua moglie. E’ un bel modo di passare il tempo durante un viaggio, questo.


autostop


...anzi autosteppa


il bivio buono

venerdì 23 gennaio 2009

Porvenir

Ci sono giornate che nascono di traverso e tutto continua ad andare ostinatamente storto come una reazione a catena.
L'altra mattina appena sveglio mi sono accorto che c'era di nuovo qualcosa che non andava nel mio dente. O è saltata l'otturazione o se ne è rotto un altro pezzo, e spero che sia la prima ipotesi. I problemi dentali mi abbattono molto.
Poi ho avuto problemi col disco esterno in cui archivio le foto. In qualche modo ho rattoppato dopo averci perso tutta la mattina, però la tecnologia che non funziona mi manda in bestia.
Nel pomeriggio avevo il ferry per Porvenir, che sta di fronte a Punta Arenas, dall'altra parte dello stretto. Di nuovo in Terra del Fuoco, quindi. Ormai conoscevo tutti i cani randagi di Punta Arenas uno per uno: era da un bel po' di tempo che ci stazionavo o che ne facevo la base di partenza e rientro per altri giri. Alla biblioteca del museo storico un impiegato mi aveva fotocopiato, praticamente di nascosto, un vecchio e raro libro, che poi avevo lasciato in custodia nell'ostello durante i miei giri ai vari Puerti (Natales e Williams). Quando sono andato a ritirarlo del libro non c'era più traccia. Credo che l'abbiano messo proprio nello scaffale dedicato allo scambio di libri tra viaggiatori. Evidentemente nei giorni passati qualcuno l'ha trovato interessante e se l'è portato via. Al momento di lasciarlo avevo precisato che ci tenevo, e la cosa mi ha seccato parecchio. Tra le ricerche del libro, il taxi che non arrivava (il tassista era andato in un altro ostello dal nome simile al mio) e le indicazioni sbagliate su dove comprare il biglietto, sono arrivato al porto nel momento preciso in cui il ferry stava partendo.
Il tassista che mi ha riportato in città era molto simpatico. Aveva voglia di chiacchierare e si è fermato per venti minuti davanti all'ostello a continuare a raccontarmi cose. Mi ha detto che se avevo perso il traghetto dev'essere che doveva andare così, che nulla succede per caso e che alla fine la cosa sarebbe sicuramente tornata a mio vantaggio. Ho apprezzato molto il suo intento di consolarmi, inoltre non sono completamente insensibile ai concetti della psicocosmica applicata, però le balle hanno continuato a girarmi ancora a lungo.
Non avevo più voglia di fare niente e mi sentivo più stanco che dopo le camminate sul Paine. Il pomeriggio l'ho passato vagando per la città e poi seduto su una spiaggetta a guardare i ragazzini che si rotolavano nella sabbia. Lì mi sono reso conto che era una bella giornata, quasi calda e finalmente senza vento. Piano piano mi sono passate le arrabbiature, mi sono concesso una cenetta un po' meglio del solito e dopo cena ho portato a termine alcuni ragionamenti che sto facendo da un po' di tempo, che comporteranno un cambiamento di approccio per i prossimi mesi di viaggio. Alla fine forse aveva ragione il tassista...
E ieri finalmente sono riuscito ad arrivare a Porvenir. Un altro posto dove "non c'è niente da vedere" e che però ho trovato molto gradevole. Un'altra cittadina molto tranquilla, che credo sia rimasta praticamente intatta fin dai tempi in cui è stata costruita. Fuori dalla porta dell'ostello staziona un'oca che ogni volta che entro o esco mi attacca. Una feroce oca da guardia... Oh, e' cattiva veramente!

lunedì 19 gennaio 2009

Puerto Williams tre: ci tornerò

Ma per quanto segua un itinerario strampalato è difficile che sarà durante questo viaggio. Puerto Williams mi aveva già toccato qualche corda speciale e questo secondo breve soggiorno ha aggiunto molto. Naturalmente ho ritrovato la stessa atmosfera tranquilla, sorridente, aperta e cordiale. In più le persone che si ricordavano di me mi hanno accolto con entusiasmo ed affetto. Mi è stato offerto da mangiare, da bere e da dormire, sono stato accudito e coccolato e al momento di ripartire mi è stato detto "Puerto Williams es tu casa". Evidentemente ci siamo piaciuti reciprocamente.
Una casa lontana, però. Ho trovato un posto dove mi trovo veramente bene e si tratta dell'ultimo avamposto abitato del pianeta. Lontanissimo e difficile da raggiungere. Probabilmente il suo segreto è questo. Il secondo addio a Puerto Williams è stato più difficile del primo.
Quando ci tornerò farò il trekking. Per questo dovrà essere prima della pensione: se le mie articolazioni continuano così non è che posso aspettare altri venti anni. A proposito del trekking, parlando con persone che lo hanno fatto e vedendo le loro fotografie ho avuto delle conferme. La prima è che questo percorso ha poco da invidiare a quello del Paine. A differenza del Paine però si è completamente immersi nella natura e completamente isolati. E quindi la seconda conferma è che ho fatto bene a non avventurarmi da solo. Dovrò tornare in compagnia, quindi. Se qualcuno si propone...
L'accoglienza che ho avuto e il piacere di essere tornato laggiù hanno ripagato della delusione del viaggio di ritorno, che rispetto alle aspettative è stato un disastro. Trentasei ore di navigazione in mezzo al grigio. Praticamente non ho visto niente. Ogni tanto dalle nuvole basse sbucava il fronte di un ghiacciaio o si intuiva l'entrata di un fiordo, ma niente di più. Le poche foto che ho fatto sembrano in bianco e nero. Sono passato proprio sotto al monte Sarmiento, sono due settimane che cerco di vederlo, ma niente da fare. Appena sarà fuori dalla portata del mio sguardo sbucherà fuori dalle nuvole e mi farà un pernacchio.
Per quanto avessi previsto il freddo e mi fossi portato dietro tutto quello che avevo per coprirmi, sul ponte più di tanto non si resisteva, e dentro il ferry era a dir poco spartano e angusto. Ho giusto visto qualche bestiola: una balena, dei leoni marini e gli albatros che ci hanno volato dietro e volteggiato intorno per tutto il tempo del viaggio. Alla fine non me la sono presa neanche più di tanto. Ormai rispetto alle foto non ci rimango più male: se capita uno sprazzo di luce buona ne approfitto, e se no al diavolo le fotografie. L'unica cosa che mi secca è di dovermi trascinare dietro una tonnellata di attrezzatura, con la quale non vado neanche d'accordo. E poi il clima di queste parti è così: le nuvole basse, il vento e la pioggia ci possono stare e bisogna metterli in conto. Al Paine ho avuto fortuna, a parte l'alba nuvolosa sotto alle torri ho trovato tempo si variabile, ma con molti sprazzi di buona visibilità. Il giorno dopo essere tornato dal parco guardavo verso le montagne e vedevo che c'era aria di tempesta. E infatti dopo un giorno ancora a Puerto Natales non si trovava più posto per dormire: la maggior parte degli escursionisti era stata ricacciata indietro dal tempo cattivo.

venerdì 16 gennaio 2009

Puerto Williams due

Di nuovo qui e felice di essere qui. Peccato solo un giorno. Confermo che questo posto mi risulta molto gradevole e ormai anche familiare. Anzi, getto la maschera: lo amo. Ho scoperto che nel mio soggiorno precedente ero diventato quasi famoso. Oggi ho saputo che per il giorno in cui ero ripartito era pronto per me un invito a cena da parte di alcune di persone del paese. Pero' non sapevano che sarei ripartito quel giorno e io non sapevo che stavano organizzando. Ma pensa.
Il volo sarebbe stato relativamente tranquillo, a sentire i frequentatori abituali della tratta. In effetti mi aspettavo peggio, pero' per sbatacchiare ha sbatacchiato. Ma ha fatto quasi piu' impressione quando l'aereo era ancora fermo a terra, pareva che il vento se lo portasse via. E appena salito avevo sentito un forte odore di... va bene, questa ve la risparmio. Beh, però il pilota, spiritosone, prima di decollare si è raccomandato di vomitare negli appositi sacchetti.
Ho ritrovato ogni cosa al suo posto, compresi i cavalli randagi che brucavano per il paese.



Leggermente preoccupato

giovedì 15 gennaio 2009

Itinerario sbilenco

Non sono più a Puerto Natales, ora sono di nuovo a Punta Arenas e domani sarò di nuovo a Puerto Williams, Giuliano controlla se c'è una webcam anche laggiù...
Sto seguendo un itinerario sbilenco, quasi spiraliforme, o sgluterato, sembra che non ce la faccia a venir via dal profondo sud. Ci tenevo a navigare per i canali tra i fiordi e i ghiacciai e l'opzione più economica che ho trovato è questa: scendere di nuovo a Puerto Williams con un aereo di linea e risalire a Punta Arenas col ferry sempre di linea, sono circa 36 ore di navigazione. L'aereo è piccolissimo e stanotte c'è un vento che strappa via le case e se devo dire la verità mi fa un po' impressione...

mercoledì 14 gennaio 2009

Ritorno al mondo civile

Sono appena tornato nel modo civile e gia’ mi manca il mondo selvaggio. Quando ero nel mondo selvaggio (che poi così selvaggio non è: di gente ce n'è tanta e la sensazione di essere dispersi in mezzo alla natura la si ha raramente) qualche volta ho rimpianto il mondo civile. E' che nel mondo selvaggio ho incontrato qualche difficoltà più del previsto. E poi forse ci vuole un po' di tempo per adattarsi (o magari a riadattarsi) a uno stato semibrado.
Avevo ricevuto informazioni imprecise, comprese quelle scritte nelle varie guide, sulla difficoltà dei sentieri e sui tempi di percorrenza. Troppo ottimistiche. Invece diversi percorsi sono abbastanza duri e scoscesi e le percorrenze sono calcolate su un buon passo di uno che non è carico come un somaro (e se è carico come un somaro allora si tratta di Superman). Sulle prime salite ho sbattuto abbastanza duro. E sulle discese peggio. Non ho pesato lo zaino ma non erano meno di venti chili. Andare per il parco in questo modo si avvicina troppo ad una prova sportiva e non mi sembra il modo migliore per godersi lo spettacolo di un ambiente maestoso. Fatto in questo modo sovraccarico il trekking non mi pare un'attività molto salutare, specialmente per le articolazioni. A meno che non si sia molto, ma molto, allenati. Di camminatori allenati ne ho incontrati diversi, in effetti: mi passavano come fossi fermo (sempre che non fossero camminatori normali e che invece io in sei mesi non sia invecchiato di vent'anni). Però questi super camminatori non li ho visti mai fermarsi a guardare il paesaggio: forse avevano qualche riferimento cronometrico da battere... (Questa vena polemica nasce dalla frustrazione di uno che, dopo i vari cammini di Santiago, si sentiva abbastanza forte e che invece si è ritrovato inaspettatamente ad arrancare con la lingua di fuori e ad essere superato di continuo da superuomini e superdonne, anche più carichi di lui, che, hop hop hop, andavano come locomotive. Quanto mi stavano sulle balle!).
Pero’, a parte le mie frustrazioni personali, penso veramente che per godersi in pieno questo posto bisognerebbe avere la possibilità di andare un po' più leggeri. Tanto peso sulla schiena è anche pericoloso, sui terreni scoscesi e col contributo delle raffiche di vento feroce ci vuole poco a sbilanciarsi e perdendo l'equilibrio lo zaino ti trascina giù a peso morto. A me è successo una volta ed è andata bene che sono finito sul morbido.
Altro disagio la tenda. Per essere più leggero possibile ne ho presa una minuscola. Praticamente un sarcofago. Una volta infilato dentro lo zaino io non sapevo dove mettermi. Dentro ci si sta solo sdraiati e le operazioni più semplici come infilarsi o sfilarsi una maglia, o peggio i pantaloni (e i calzini non vi dico), diventano di una difficoltà quasi insormontabile. Si aggiungano i dolori articolari e la stanchezza di fine giornata, che già del loro, a prescindere, rendevano difficile qualsiasi movimento. Dovevo studiare bene l'ordine di inserimento degli oggetti: se sbagliavo un passaggio dovevo ricominciare tutto dall'inizio. Una volta montato il sarcofago lo guardavo sconsolato e pensavo: e adesso come faccio? Ho incontrato un tipo che aveva una tenda simile alla mia, solo che era la versione per due persone. Mi sembrava un appartamento. Pesa tre etti più della mia. Tre etti! Col macigno che mi portavo sulla schiena di tre etti in piu’ neanche mi accorgevo!
Insomma qualche imprevisto ed i miei errori strategici da inesperto mi hanno fatto un po' stentare all'inizio (è lì che ho rimpianto il mondo civile) e mi ci è voluto un po' prima di cominciare a sentirmi a mio agio.
La prima mattina mi sono alzato (o meglio mi sono trascinato fuori dal sarcofago) alle quattro, per trovarmi all'alba sotto alle torri. Ho trovato la processione: una fila interminabile di torce frontali che si arrampicavano verso il famoso mirador. Ho dato la precedenza a chi veniva da destra all'incrocio e mi sono immesso nel flusso pure io. Non è stato molto entusiasmante. Pioveva, tirava un vento spietato e faceva freddo, e le torri nascoste dietro alle nuvole. Tutti ad aspettare che il cielo si aprisse ma niente, lorsignore non si mostravano. Sono stato l'ultimo a scendere (adesso esce il sole e li frego tutti!). Ma alla fine ho ceduto anch'io, se rimanevo ancora rischiavo il congelamento. A metà discesa (mooolto ripida) esce il sole, mi giro e vedo le torri scoperte. Ma da quella posizione potevo vederne appena le punte. In quel momento ho pensato questo parco è una fregatura. Per fortuna non sono tornato su, perché dopo dieci minuti erano di nuovo nascoste: era solo una trappola, ma non ci sono cascato!
Poi col passare dei giorni mi sono acclimatato, rilassato e adattato. Mi sono organizzato meglio, anche con il sarcofago (un ragazzo cileno me lo ha detto apertamente: la tua tenda sembra un feretro. Quella sera prima di entrare mi sono dato una toccatina: finché me lo dico da solo è un conto ma se cominciano a dirmelo anche gli altri, allora). Ho imparato a mettere una bella tara sui tempi di percorrenza indicati dalle carte e ho capito che passo dovevo tenere.
Fatica ne ho sempre fatta. Mangiavo mangiavo ma lo zaino pesava sempre uguale. Sicuramente qualcuno mi ci infilava dei sassi di nascosto.
Comunque il posto è di una bellezza eccezionale e ne è sicuramente valsa la pena. Dovessi tornarci mi organizzerei diversamente per limitare un po' la fatica e godermi di più lo spettacolo. Ma è difficile fare il giro che ho fatto senza portarsi dietro tanto peso. In alcuni punti del parco si possono anche comprare delle provviste, ma vengono vendute a peso d'oro. La gestione dei campeggi a pagamento e dei rifugi non è più del CONAF (l'ente statale che gestisce i parchi) ma è stata appaltata ad una società che pratica dei prezzi incredibilmente alti per qualsiasi cosa, un vero e proprio furto. Al di là del fattore economico, che pure non è trascurabile, la cosa infastidisce molto per il principio. Si possono organizzare le tappe meglio di come ho fatto io, sistemandosi nei campeggi più a valle e poi salire in alto e ridiscendere in giornata. Anche se così si perde l'opportunità di trovarsi nei posti più belli nelle ore più belle, cioè la mattina presto e al tramonto (anche se tutto può essere vanificato dalle nuvole basse). Non ho fatto il circuito più lungo, di dieci giorni, come avevo pensato all'inizio. Per fortuna, sarei morto di fatica. Sarebbe stato necessario portarsi molte più scorte e quindi molto più peso. In più persone si potrebbe ottimizzare il carico e ripartire meglio il peso, ma da soli bisogna essere davvero molto preparati fisicamente (e forse avere delle ginocchia migliori delle mie).
Clima naturalmente estremamente variabile. Ma chissà perché nelle salite più ripide e a pieno carico ho incontrato, per la prima volta da quando sono così al sud, la vera estate piena.
Una quantità enorme di insetti assetati di sangue. Non me li aspettavo proprio e a tutto avevo pensato tranne che a un repellente. Per loro l'aumento del flusso turistico nel parco è una manna dal cielo.
Finalmente ho visto i primi condor non impagliati. Una mattina appena ho messo il naso fuori dalla tenda ne ho visti passare due, bassissimi e vicinissimi, probabilmente in fase di atterraggio. Nelle zone dove sono passato tanti volatili ma nessun mammifero: troppa gente, si tengono lontani. Ho conosciuto due ragazzi cileni, biologi, che venivano da un'altra zona del parco molto meno frequentata. Erano andati alla ricerca del puma e sono stati fortunati. Hanno sentito il verso di allarme del guanaco (mi hanno spiegato che è un verso differente dal solito ragliare), lo hanno seguito ed hanno trovato due puma che stavano banchettando. Si sono avvicinati molto. Mi hanno fatto vedere due foto. Nella prima i puma mangiano. Nella seconda foto guardano verso l'obiettivo: avevano sentito lo scatto della prima e si erano voltati. Non so che brivido sia passato nelle loro schiene in quel momento. Nelle schiene di tutti e quattro, ragazzi e puma. Il guanaco poveretto il suo brivido l'aveva già passato. I puma si sono allontanati. Anche i ragazzi... Dopo un'ora i puma sono tornati, prima uno e poi l'altro, a completare il pasto. Mi hanno detto che da queste parti negli ultimi anni è successo solo una volta che un puma si sia mangiato una persona. Pare che il poveretto si sia trovato sulla linea del puma che già era partito all'attacco di un guanaco. A quel punto il puma ha scelto la preda che correva meno velocemente.
L'ultimo giorno ho accorciato un po' il percorso e sono rientrato un po' prima. Nelle discese sentivo che le ginocchia non andavano più bene. Le refrigeravo con l'acqua gelata dei fiumi, ma alla fine ho deciso di non fare danni. Tutto sommato, e nonostante tutto, ero già notevolmente appagato e ho stabilito che poteva anche bastare così.
Oggi giorno di pieno riposo a Puerto Natales. Ci voleva, soprattutto per le ginocchia.


Le torri del Paine all'alba. Stanno dietro alle nuvole, lavorate con l'immaginazione. Pero' il posto e' suggestivo anche cosi'


Lorsignore giocano a nascondino


Il picco al centro è la Torre Sur. L'ho presa alle spalle il giorno dopo...


Per una volta nel posto giusto al momento giusto con la luce giusta


I Cuernos del Paine


Il Paine Grande


Restando in tema di tramonti

mercoledì 7 gennaio 2009

Puerto Natales

Il paesaggio tra Punta Arenas e Puerto Natales e' quello che mi aspettavo dalla patagonia: la steppa sconfinata con sopra un cielo, delle nuvole e una luce straordinari. Ancora non ho digerito la frustrazione di guardare certi paesaggi dal finestrino di un mezzo di trasporto che non si ferma quando dico io.
Il vento faceva ondeggiare anche il pullman. Pensavo ai motociclisti, non ce ne sono molti ma ce ne sono. Per quanto mi piace andare in moto penso che non ci sarei arrivato fin qua. Sono condizioni in cui, per i miei gusti, il disagio e lo stress sarebbero piu' grandi del piacere.
A un certo punto sono apparsi i primi alberi stentati e contorti. Non deve essere facile essere albero da queste parti. Poi la prima boscaglia, le prime alture, e poi quasi all'improvviso, in lontananza, le montagne, quelle serie e massicce.
Questa mattina ho dato una prima occhiata da lontano al massiccio del Paine. Si presenta bene, massiccio veramente, parzialmente coperto dalle nuvole e di neve. Mette anche un po' di soggezione.
Domani mattina vado al parco. Lo zaino e' gia' pronto e non e' leggero. Oltre all'attrezzatura fotografica che ancora non mi sono rivenduto contiene le provviste per cinque giorni (basteranno, saranno troppe?). Casomai mi mangio tutto domani, cosi' tolgo zavorra. O meglio, trasferisco il carico nella panza e cosi' miglioro il baricentro.
Per qualche giorno quindi saro' disconnesso dalla rete mondiale. Suppongo, non mi stupirei neanche piu' di tanto di trovare internet anche lassu'...

sabato 3 gennaio 2009

Vagabondare stanca

Vagabondare, anche se non sembra, è un'attività piuttosto impegnativa. Dico sul serio! A parte il vagabondaggio in sé, ci sono sempre tante cose da fare, da pensare, o da organizzare (e poi me la sto prendendo particolarmente comoda!) e le giornate sono quasi sempre troppo corte.
Vi ringrazio tutti per gli auguri e per tutto quello che mi scrivete. Purtroppo non ce la faccio a rispondere a tutti i messaggi, e anche con la posta sono molto in ritardo, perdonatemi...

Puerto del Hambre

E' quello che resta del primo tentativo spagnolo di creare una colonia sullo stretto di Magellano. Non c'è quasi nulla, si vede solo la base di un muro di pietre, che sono le rovine della chiesa. Ma quello che impressiona è la storia legata a questo posto.
Come al solito c'è di mezzo Francis Drake. Anzi, inizia tutto da lui. Drake nel 1578 riesce a passare lo stretto e saccheggia le colonie spagnole del Pacifico, completamente prive di protezione sul lato del mare.
Questa nuova via aperta da Drake costringe la Spagna a pensare a misure difensive, e con questo obiettivo Pedro Sarmiento de Gamboa progetta di creare una colonia sullo stretto, per presidiarlo e bloccare la via d'accesso a nuove incursioni dei corsari inglesi.
Naviga una prima volta sullo stretto, nella direzione "buona" dal Pacifico verso l'Atlantico, in favore di vento e di corrente, e individua il posto più adatto al nuovo insediamento, a Punta di Santa Ana, circa 50 chilometri a sud dell'attuale Punta Arenas.
Nel settembre del 1581 partono dalla Spagna 23 navi e più di tremila persone. Dopo due soli giorni di navigazione una tempesta sorprende la spedizione, che perde subito 800 persone e 7 navi, e la costringe a rientrare in Spagna. Nuova partenza due mesi dopo, con 16 navi. Il viaggio è tremendo, tra tempeste, naufragi e malattie. Riescono ad arrivare all'imboccatura dello stretto nel febbraio del 1583: sono rimaste solo 5 navi e poco più di 500 persone.
Ma non riescono a penetrare a causa delle tempeste e delle correnti e sono costretti a tornare a Rio de Janeiro. Riparano le navi e tentano di nuovo, ma nel febbraio del 1854 sono di nuovo ricacciati indietro. Sarmiento allora sbarca all'imboccatura dello stretto e ne prende possesso in nome del re di Spagna. Lì fonda un primo insediamento che chiama Ciudad Nombre de Jesus. Insabbiano una delle navi per ricavarne legna. Ma parte della spedizione si ammutina, e tre navi ripartono per la Spagna, portandosi via buona parte dei viveri e dei beni di necessità, abbandonando Sarmiento con 330 persone ed una sola piccola nave, la Santa Maria de Castro.
Nel mese di marzo Sarmiento, con altre 150 persone, riesce comunque a raggiungere la Punta di Santa Ana e fonda la nuova colonia, che chiama Ciudad del Rey Felipe. Nel mese di maggio lascia 130 coloni nella città in costruzione e ritorna alla colonia di Jesus, all'imboccatura dello stretto. Ma una tempesta strappa gli ormeggi della nave, la porta fuori dallo stretto e praticamente la trascina fino alle coste del Brasile. Non riuscirà più a raggiungere le colonie. A Rio ottiene l'appoggio del governatore portoghese ed invia una nave di soccorso. Ripara la Santa Maria de Castro e la carica di provviste, ma la nave naufragherà a Bahia. Si procura un'altra nave e riparte verso sud. In prossimità dello stretto l'ennesima tempesta lo costringe a tornare indietro. Di nuovo a Rio, viene a sapere che anche l'altra nave di soccorso ha subito la stessa sorte.
Decide di tornare in Spagna a chiedere aiuti, ma durante il viaggio viene catturato prima dai corsari inglesi e poi dagli ugonotti. Dopo anni di prigionia riuscirà ad arrivare in Spagna solo nel 1589, ma non otterrà più aiuti per le sue colonie, che ormai sono considerate perse.
I coloni, abbandonati al loro destino, in un ambiente estremo, fuori da tutte le rotte di navigazione, senza mezzi di sussistenza, con pochi vestiti stracciati, iniziano a morire di fame, di freddo e di stenti.
Nel gennaio del 1587 sopravvivono ancora solo 15 uomini e 3 donne. Stanno cercando di raggiungere la prima colonia, Ciudad de Jesus, quando vedono arrivare tre navi. Si tratta di un altro corsaro inglese, Thomas Cavendish, che seguendo l'esempio di Drake si sta dirigendo verso le colonie spagnole del Pacifico. Cavendish imbarca un superstite, Tomé Hernández, e si dichiara disponibile a portare con sé anche gli altri. Ma prima che possano salire a bordo si leva un vento favorevole, Cavendish issa le vele e se ne va, abbandonandoli di nuovo al loro destino. Tre giorni dopo Cavendish raggiunge la Ciudabid del Rey Felipe, scende a terra e trova un quadro macabro, la città già in rovina e disseminata di morti. Ribattezza il luogo come Port Famine, Porto Carestia. Tomé Hernández fu l'unico sopravvissuto e l'unico testimone.
Nel 1590, un altro corsaro inglese, Andrew Merrick raggiunge la colonia. Vi trova un altro superstite, che si chiama Hernando, e lo prende a bordo. Hernando racconta che negli ultimi due anni è vissuto da solo, alimentandosi di quello che poteva cacciare col suo fucile. Ma muore durante il viaggio di ritorno in Inghilterra, come quasi tutto l'equipaggio della nave, e la sua storia si conosce solo grazie al racconto di uno dei pochi sopravvissuti.
Col passare dei secoli di Ciudad del Rey Felipe/Puerto de Hambre è scomparsa ogni traccia. Fino a pochi anni fa si conosceva solo approssimativamente il luogo in cui sorgeva e si riteneva che si trovasse leggermente più a sud di dove, negli anni 50, furono effettivamente rinvenute le poche rovine. Ironia della sorte, Puerto de Hambre sorgeva esattamente nel luogo che oggi è conosciuto come "Bahía Buena"...

giovedì 1 gennaio 2009

E di nuovo cambio casa

Di solito non mi lamento troppo, e poi quando si viaggia in economia ci si deve adattare, però questa volta ho cambiato ostello: facevano troppa economia sul riscaldamento. E va bene che pagavo poco, ma per andare a dormire mi dovevo vestire più che per uscire. Per alcuni giorni qui è stato veramente freddo (ho letto sul giornale di raffiche di vento a 120 chilometri all'ora), quando rientravo non riuscivo a riscaldarmi in nessun modo e ora sto pagando con un raffreddore coi controfiocchi.
E altre cose non mi sono piaciute di quel posto, per esempio un'escursione che mi è stata proposta come fosse il favore di un amico, ad una cifra con cui potevo noleggiare una macchina e andarmene in giro per conto mio tutto il giorno. Poi l'escursione l'ho fatta con un'agenzia, prendere una macchina non valeva la pena, ed ho pagato un terzo di quanto mi era stato proposto in ostello. A ciò si aggiungano le vicine di casa, le diavolesse, col loro trambusto notturno: alla fine mi sono spostato. Un altro ostello in un'altra zona, anche se il quartiere a luci rosse in sé era il problema minore, era solo un po' rumoroso.
Dove sono ora pago un po' di più, ma ho una stanza tutta per me e soprattutto il riscaldamento è acceso.
Tra cambio di ostello e di quartiere e vento e freddo diminuiti, in questi ultimi giorni Punta Arenas è risultata molto più gradevole. Anche qui mi sono fermato più di quanto prevedevo, ma domani si cambia di nuovo. Ritorno in Terra del Fuoco, a Porvenir, dall'altra parte dello stretto, proprio davanti a Punta Arenas. Sto seguendo un itinerario un po' strampalato, probabilmente ritornerò anche a Rio Grande per un paio di giorni, e poi passerò di nuovo per Punta Arenas. Penso.
Escludendo il primo ostello di Punta Arenas, in tutte le città in cui sono stato ho trovato gente accogliente, disponibile e gentile. E' stato un piacere fare qualsiasi cosa: chiedere un'informazione, comprare qualcosa, prendere un taxi. Forse quest'atmosfera l'ho respirata un po' di meno a Ushuaia, che è una città che vive molto di turismo. Ma può anche darsi che nemmeno io fossi nella disposizione migliore, in quei giorni.


Pallastrada* a Punta Arenas

* Anche la pallastrada è stata concettualizzata da Stefano Benni