mercoledì 29 aprile 2009

Ritorno a quel paese

Sto arrivando.

Bolivia

Due parole sulla Bolivia le voglio spendere, anche se velocemente, che se poi scrivo da casa non vale più.
Di tempo non ne avevo più molto e il problema gastrointestinale di Salta me lo ha ulteriormente accorciato, anzi aveva messo in dubbio la stessa possibilità di andare. Per cui sapevo che sarebbe stato un passaggio rapido ed ero abbastanza rassegnato a conoscere solo la bellezza naturale del salar de Uyuni e poco più. Però appena ho messo piede in Bolivia, letteralmente appena attraversata la frontiera, ho avvertito che si trattava di qualcosa di totalmente diverso. Una permanenza di una settimana è troppo breve per poter capire un paese, però la Bolivia trasmette immediatamente qualcosa di forte, o almeno a me lo ha trasmesso. Per uno che viene dall'Europa il contatto con Argentina e Cile non è traumatico, con la Bolivia potrebbe esserlo. Si entra veramente in un altra realtà. Il poco che sono riuscito a conoscerne mi ha lasciato la voglia di ritornare. Dal poco paesaggio che ho potuto vedere in una settimana sono rimasto incantato dal primo all'ultimo minuto. Già durante il viaggio in treno dalla frontiera a Tupiza ho sempre guardato fuori dal finestrino a bocca aperta. In pochi chilometri mi è passato davanti di tutto, il deserto, valli verdissime, la steppa, la foresta, le montagne. Quasi difficile da digerire sensorialmente, tutta questa stimolazione visiva.
A Tupiza ho cercato un'escursione per il Salar de Uyuni, ed alla fine sono capitato in mezzo ad un gruppo di olandesi. Bella gente. Alternative all'escursione non ce n'erano. Sicuramente non per i tempi che avevo io, però credo che in generale fare lo stesso itinerario autonomamente sia molto difficile, e costoso. Occorre per prima cosa un fuoristrada, ma veramente fuoristrada (meglio di tutto sarebbe forse un trattore) in perfette condizioni, un'ottima cartografia e, visto che ormai esistono queste cose, un ottimo GPS. E non sono sicuro che tutto questo basterebbe. In certi casi la guida che conosce il posto può essere insostituibile. La cosa veramente ideale sarebbe forse quella di potersi permettere una guida tutta per sé e molto tempo a disposizione. In realtà il solo problema dell'escursione, anche se non da poco, sono stati i tempi troppo serrati. In quattro giorni abbiamo percorso 1.200 chilometri di sterrati terribili e le soste per forza dovevano essere brevi. Ho fatto presente la cosa alla guida e all'agenzia, mi hanno risposto che avevo perfettamente ragione e che condividevano, ma che però la domanda è questa. Il turista ha sempre i giorni contati e vuole fare tutto il più rapidamente possibile. Di fatto, mi hanno detto, la stessa escursione proposta in sei giorni invece di quattro non l'avrebbe comprata nessuno, sarebbe stata uno spreco di tempo. Il concetto dei giorni contati è relativo: dipende da quante mete si vogliono collezionare in un viaggio. Io come si è capito sono per collezionarne di meno e spendere un po' più di tempo per ognuna, ma la maggior parte dei turisti non la pensa come me e preferisce tenere anche in vacanza lo stesso ritmo della vita quotidiana. Certo, un viaggio di mesi è diverso da un viaggio di settimane ed è una rarità avere a disposizione tutto il tempo che ho avuto io. Però il principio è lo stesso: in quattro giorni avrei preferito vedere qualche laguna, vulcano e salar in meno e dedicare più tempo a quello che avrei visto.
Mi è piaciuta l'agenzia comunque, credo di avere scelto quella giusta, così come la guida, un ragazzo che fa questo lavoro con passione, e tanto più l'ho capito dopo che mi ha raccontato che prima lavorava in una miniera.
Questa agenzia nei primi due giorni segue un percorso alternativo rispetto alle altre. Passa per alcuni villaggi completamente isolati con l'obiettivo di coinvolgere la gente del posto e permettere anche a loro di guadagnare qualcosa dal flusso turistico, che nella zona del salar si sta espandendo molto. A proposito della puna argentina avevo parlato di un mondo remoto, ma se quello era un mondo remoto, questo è letteralmente un altro pianeta. Chilometri e chilometri di strada impossibile, persi attraverso montagne selvagge, senza nessuna traccia di presenza umana. Nei villaggi, incredibilmente isolati e lontani da tutto, la gente ci guardava tenendosi a distanza, era quasi impossibile parlare con loro. In quello dove abbiamo dormito le donne che ci hanno preparato i letti sembrava che volessero farlo più in fretta possibile per allontanarsi al più presto da noi. Sono posti dove si fa una vita durissima. Vivono solo dell'allevamento dei lama e si nutrono quasi esclusivamente di carne di lama. La loro vita media non supera i 55 anni. Hanno grossi problema alla vista, perché si riscaldano bruciando un arbusto che produce un fumo tossico, e le loro case sono quasi completamente prive di finestre. Però mi hanno detto all'agenzia che è stato difficilissimo convincere la gente dei villaggi a mettere in piedi dei piccoli ostelli. Per quanto sia duro sono estremamente legati al loro modo di vivere. E' l'unico che conoscono. Credo che l'essenza della Bolivia sia questa: l'isolamento, la vita durissima e povera e il fortissimo legame con le tradizioni. Oltre allo spagnolo si parlano decine di lingue antiche, in alcuni luoghi solo quelle. Non si tratta di un mondo inesplorato, nemmeno socialmente. Ma molto poco esplorato. Nemmeno di un mondo incontaminato, si tratta. Forse nei luoghi più remoti sono secoli che non ci sono contaminazioni, ma anche qui arrivarono i conquistadores, infatti si parla lo spagnolo e anche nei villaggi più sperduti ci sono le chiese. E del resto prima degli spagnoli arrivarono gli Incas, ad assoggettare popolazioni, portare via l'oro ed imporre la loro lingua e le loro tradizioni. E forse basta il passaggio di un turista, di un viaggiatore, di uno studioso, per iniziare a contaminare.
Purtroppo non posso continuare: il tempo è scaduto e devo andare all'aeroporto. Il resto ve lo racconto a voce quando ci vediamo.
Aggiungo al volo un po' di foto.









lunedì 27 aprile 2009

Racconti arretrati

Da Cafayate fino a Salta ho quasi sempre avuto compagni di viaggio più o meno fissi. All'inizio è stato in parte un caso perché lungo la via delle valli Calchaquies i mezzi di trasporto sono rari e le tappe quasi obbligate ed è inevitabile ritrovarsi sempre tra le stesse persone. Tra Angastaco e Molinos, in particolare, trasporti pubblici non ci sono proprio e bisogna contrattare un passaggio in auto con qualcuno del posto. Fare autostop in questo tratto può essere dura: può capitare che in una giornata intera non si incontri nessuno che lo percorra per intero e ad essere lasciati per strada si rischia di finire arrostiti sotto il sole.


Tempesta a Cachi

Poi a Salta, insieme a Sylavain, un francese con cui mi ero trovato in buona sintonia, abbiamo deciso di noleggiare un'auto per quattro giorni, per avere una volta tanto la libertà di muoverci, e di fermarci, a nostro piacimento.
E così siamo partiti in direzione di San Antonio de Los Cobres, verso la cordigliera. La strada sale quasi sempre affiancata al percorso di un'altra ferrovia il "tren à las nubes".

Tren à las nubes
Il ferrocarril trasandino del nord. Collega Salta con il porto di Antofagasta, in Cile, ed attraversa la cordigliera spingendosi fino alla quota di 4.200 metri. Gli studi per la realizzazione iniziarono nel 1889, i lavori nel 1921 e la linea completa fu inaugurata nel 1948, dopo mille difficoltà finanziarie, tecniche e politiche: tra il concepimento del progetto e la realizzazione passarono 59 anni. Anche questo fu uno sforzo enorme per l'epoca e considerata l'altitudine, il clima estremamente rigoroso e i mezzi a disposizione i lavori furono particolarmente duri. Il tracciato, oltre ad attraversare ponti, viadotti arditi e tunnel, per superare le pendenze più forti sale a zig-zag. Il treno in questi punti marcia avanti e indietro: prima dei tratti più ripidi retrocede su una via inclinata parallela al binario principale per prendere la rincorsa e poi si lancia di nuovo in avanti a tutta birra fino a svalicare. Se non ce la fa ripete l'operazione.
A partire dagli anni 70 si iniziò a sfruttarlo turisticamente. La mia guida parlava di un treno merci ancora attivo che arrivava fino al Cile e che offriva anche un servizio passeggeri molto spartano, ma pare che ormai anche questa linea sia definitivamente interrotta. Rimane solo il treno turistico, che arriva fino al famoso viadotto de la Polvorilla (se cercate su google "tren a las nubes" vi escono migliaia di fotografie di questo ponte di ferro), una ventina di chilometri dopo San Antonio de los Cobres, e rientra a Salta in serata. In tutto una quindicina di ore di viaggio a una media di meno di quaranta chilometri all'ora, che si pagano piuttosto salate. Il treno è dotato di tutte le comodità e gli intrattenimenti. Guide che illustrano i passaggi salienti in varie lingue, ristorante, musica, video, spettacoli folcloristici, medico per eventuali problemi dovuti all'altura, e ad ogni fermata l'offerta di specialità ed artigianato locale da parte della gente del posto. In realtà anche il treno turistico negli ultimi anni circola a fatica. Nel 2005 un'avaria al locomotore lasciò cinquecento turisti bloccati in mezzo alle montagne, non esistendo una locomotiva di riserva né un piano di evacuazione di emergenza. Il treno ha ripreso a funzionare nel 2008, ma ora è di nuovo fermo a causa delle piogge forti e fuori stagione che sono cadute nella zona negli ultimi mesi e che hanno danneggiato parti del tracciato. Sembra che la circolazione riprenda nel mese di maggio.

La strada e la ferrovia salgono lungo la quebrada del Toro, un'altra valle scenografica. Nella parte più bassa circondata da montagne verdi, salendo l'ambiente si inaridisce velocemente. I cactus e gli arbusti prendono il posto degli alberi, le montagne si fanno brulle e colorate ed il terreno si fa sabbioso. In mezzo a questo paesaggio incontriamo un cimitero isolato, senza nessun villaggio nelle vicinanze. Come se i defunti avessero deciso loro di andare a stabilirsi là.



Per la pausa pranzo ci fermiamo a Santa Teresa de Tastil, un villaggio minuscolo di popolazione esclusivamente autoctona. Quando stiamo per ripartire il proprietario della locanda dove avevamo mangiato ci chiede se avevamo visto le rovine. Quali rovine? Io non ne sapevo nulla, ma neanche il mio compagno di viaggio che normalmente era molto più documentato di me. Sicché il locandiere ci fa da guida e ci accompagna alle rovine di una grande città preincaica arroccata tra le montagne a poche centinaia di metri dal villaggio. Alla nostra guida chiedo a che epoca risale, quale popolazione la abitava, quando fu abbandonata, se fu assoggettata all'impero inca. Ma lui ne sapeva poco, solo continuava a raccogliere per terra punte di frecce di ossidiana. In seguito ho cercato notizie sopra alla città, ma ho trovato ben poco. Pare fosse abitata da circa duemila persone e che fu abbandonata intorno al 1.400 per non si sa quali motivi, ma non si trattò né di una guerra né di un'epidemia.


la locanda di Santa Teresa de Tastil


le rovine di Tastil (dietro il cactus)

Ripartiamo portando con noi due donne che ci avevano chiesto insistentemente un passaggio fino a San Antonio de los Cobres. La strada ha continuato a salire fino ad attraversare un passo dopo il quale siamo sfociati nella puna, l'altipiano andino di alta quota stepposo, arido, colorato, orlato dalla cordigliera e attraversato da cordoni di montagne tra cui diversi vulcani, eroso dallo scorrimento dell'acqua, ricco di saline e lagune, che si estende dalla provincia di San Juan e prosegue in Bolivia. Una forte sensazione di rarefazione. Al di là dell'effettiva rarefazione dell'aria.


la rarefatta puna

L'imprevista sosta archeologica ci ha pregiudicato la possibilità di raggiungere il Salar Grande, una lago salato dove volevamo piantare le tende, e quindi abbiamo passato la notte a San Antonio de los Cobres, una città mineraria quasi impressionante, sperduta in mezzo alla puna. Per San Antonio il treno turistico è una risorsa notevole. Nella città esiste una tradizione antica di lavoro di tessitura da parte delle donne. I turisti del treno sono ottimi compratori. A tal proposito, le due gentili signore, per ringraziarci del passaggio, ci hanno venduto due berretti di lana fatti a mano ad un prezzo che poi si è rivelato essere molto più alto di quello corrente in zona per prodotti simili. I berretti però almeno si sono rivelati molti utili nel freddo serale e primomattutino. Approfittando dell'ultima luce ci siamo spinti un po' oltre San Antonio, lungo una strada ai limiti del possibile per l'utilitaria che avevamo, fino al viadotto della Polvorilla, il punto di passaggio più spettacolare ed elevato della ferrovia, a 4.200 metri. Ho retto abbastanza bene all'alta quota, considerato che era la prima volta nel corso del viaggio che arrivavo così in alto, anche se poi la sera ho pagato con un po' di mal di testa. Sono riuscito ad arrampicarmi sul dirupo che portava sopra al ponte senza morire, anche se mi dovevo fermare di continuo per prendere aria. Che però non c'era. Sono solo una sessantina di metri di dislivello, ma a quella quota e senza acclimatamento è una faccenda impegnativa.
Ho attraversato il ponte. Sul lato da cui sono partito c'era un cartello illeggibile. Sull'altro lato lo stesso cartello era leggibile, e c'era scritto che era vietato attraversare il ponte. Di certo non c'era nessuno a farmi la multa, però effettivamente è stata una passeggiata vertiginosa, e infatti mentre camminavo lungo il ponte, tenendomi quasi sempre rigorosamente al centro dei binari, pensavo: ma perché non è vietato fare quello che sto facendo?

La parte migliore della libera escursione automobilistica è stata la seconda giornata, quando abbiamo attraversato la puna. Lo è stata per noi noi ma non per l'automobile, che ha dovuto affrontare tutt'altre strade rispetto a quelle per cui era sta progettata. Sembrava di essere in un'altra dimensione. Il paesaggio sembrava rarefatto come l'aria. In tutta la giornata abbiamo incrociato due auto e un camion, per quanto riguarda l'universo della mobilità umana. Il traffico animale invece era molto più intenso: nandù (cugini degli struzzi), vigogne, lama, e tanti liberi somari della steppa. Non so perché ci fossero tanti somari. Forse sono scappati dalle miniere.


traffico sulla Ruta 40


i liberi somari della puna

Alcuni minuscoli villaggi e alcune case isolate. Davvero un altro mondo (rispetto a quello che sono abituato a frequentare). In uno dei villaggi abbiamo cercato di parlare con dei bambini che pascolavano capre. Non è stato facile, parlavano con un accento che non riuscivamo a capire, così come per loro era difficile capire noi. Erano curiosi e sembravano timorosi allo stesso tempo. Guardavano le nostre macchine fotografiche come fossero oggetti misteriosi, e probabilmente un po' anche le nostre persone.





Nella mia ignoranza geografica avevo sempre associato la Ruta 40 alla Patagonia, invece attraversa tutta l'Argentina fino quasi al confine con la Bolivia. Ne abbiamo percorsi gli ultimi cento chilometri e ne avevamo percorso dei tratti tra le valli Calchaquies. Ad un certo punto abbiamo incontrato una donna che faceva autostop. Non un timido chiedere un passaggio con il dito pollice alzato: si era piazzata in mezzo alla strada e sbracciava. Non poteva lasciarsi sfuggire la forse unica auto della giornata. L'abbiamo caricata ma con il proposito di non comprare berretti di lana. Stava aspettando da tre ore ed è stata fortunata. Viveva nel minuscolo villaggio a qualche centinaio di metri dalla strada, che non avevo neanche notato per via del colore delle case, costruite con mattoni di adobe (fango e paglia seccati al sole) che si confondeva con quello del terreno. Nel villaggio è nata ed ha sempre vissuto, e probabilmente non si è mai allontanata di molto dalla puna. Stava andando a trovare la figlia ad Abra Pampa, il paese dove sfocia la Ruta 40. Anche con lei è stato difficile comunicare, per via dello stesso accento dei bambini. Sapevo che da queste parti c'è ancora gente che parla il quechua, la lingua degli Inca. Ho pensato che questo accento potesse essere l'inflessione quechua, ma l'ho considerata più una fantasia che un'ipotesi. In seguito invece mi è stato confermato che era proprio così.
Questa è ancora un'altra Argentina, molto diversa anche da quella, pur popolata prevalentemente da autoctoni, della zona di Cafayate e delle valli Calchaquies. Qui è veramente un posto lontano da tutto, abitato da gente radicata in una cultura remota, che vive una vita povera e dura in un ambiente dove, per uno che non ci è adattato, è difficile anche respirare.
Anche ad Abra Pampa, che è un centro più grande, l'atmosfera era strana. Sono ripartito con la sensazione di qualcosa che mi sfuggiva. Non è un posto molto invitante, sicuramente non dal punto di vista turistico. Povero, polveroso e scolorito. Sicuramente autentico, su questo non c'è dubbio. Le solite difficoltà, linguistiche e non, per comunicare con la gente. Che non era ostile, ma ci guardava con uno sguardo che io interpretavo come "ma cosa sono venuti a fare fin quassù, questi due?". Gente che sicuramente non si apre al primo impatto, quello che noi non abbiamo superato nel poco tempo che ci siamo fermati. Sarebbe stata necessaria una sosta più lunga per afferrare qualcosa del posto, e per dare il tempo alla gente, se lo desiderava, di studiarci meglio e di aprirsi un po'.

Siamo ridiscesi per la via "principale", quella che viene dalla Bolivia ed attraversa la celebrata quebrada de Humahuaca. Io mi aspettavo qualcosa di un po' più selvaggio, tipo la quebrada de las Conchas, invece è una valle molto più grande, larga, ed è attraversata da una strada importante. Intorno montagne piuttosto imponenti. L'evoluzione geologica ha disegnato linee a zig-zag e i chissà quanti metalli in mezzo alle rocce le hanno multicolorate.



Però venendo dalla puna e da quel mondo rarefatto sono rimasto un po' deluso. Non tanto dal luogo fisico, però mi ha lasciato un po' male la strada ed il notevole viavai turistico che di nuovo ho incontrato lungo la tutta la valle.
Ma comunque, la quebrada è patrimonio culturale dell'umanità perchè vi si conserva uno stile di vita rimasto inalterato per secoli. Così dicono. Nei centri più grandi (Humahuaca, Tilcara e Purmamarca) si notavano soprattutto le bancarelle di prodotti tessili artigianali. Sicuramente questo commercio va a vantaggio della popolazione locale, però gli autoctoni venditori vestivano abiti occidentali mentre i turisti vestivano di colorati tessuti andini appena comprati nelle bancarelle. I conti non tornavano proprio tutti. Possibile che negli anfratti laterali della valle, nei villaggi più isolati, le cose siano differenti e che le tradizioni e lo stile di vita patrimonio dell'umanità siano realmente vive.



In ogni caso non si tratta di uno stile di vita preispanico, ma piuttosto di quello che si è creato dalla mescola tra i primi spagnoli arrivati in zona e la popolazione indigena. Avrei voluto approfondire meglio l'argomento. Comunque, da quanto sono riuscito a capire, queste zone, dopo l'arrivo della prima ondata di colonizzazione spagnola, sono state oggetto soprattutto di uno sfruttamento minerario (la stessa cosa che era successa non molto tempo prima con l'assoggettamento all'impero Inca). Gli spagnoli da qui hanno prelevato oro e altri metalli, ma non vi hanno mai creato insediamenti importanti. Sono zone aride, a parte gli stretti fondovalle non ci sono altre opportunità per l'agricoltura e sicuramente costringono a condizioni di vita piuttosto dure. Sicché dopo il primo insediamento non sono seguite altre ondate migratorie ed il risultato della prima mescolanza si è mantenuto intatto nei secoli seguenti. E così il cristianesimo ha fatto anche qui il suo ingresso ma non ha soppiantato le tradizioni e la religione preesistenti, piuttosto si è creata una miscela in cui convivono e spesso si fondono le processioni dedicate ai santi e i riti dedicati alla Pachamama, la madre terra, la divinità più ancestrale. Così come preti e chiese convivono con stregoni e i riti magici e le farmacie convivono con il curandero.
A Humahuaca c'è un museo molto interessante che spiega approfonditamente gli aspetti di questa cultura. E' un museo privato messo in piedi da un personaggio locale, che però ci tiene moltissimo a specificare che lui non è uno storico. Tante volte infatti gli ho chiesto notizie storiche sulla zona e lui insistentemente non me le dava. Ti posso raccontare solo il modo di vita di queste parti, mi diceva.

Nella ridiscesa verso Salta segnalo la notte passata a Jujuy per l'ostello in cui mi sono trovato peggio durante tutto il viaggio e per un temporale che mi ha quasi messo paura. L'ostello tracimava di giovani vocianti, allegri, festanti, euforici, il tutto a parere mio abbastanza eccessivo e ingiustificato. Ho dormito al terzo piano di un letto a castello. Se guardavo in basso mi venivano le vertigini quasi come sul viadotto della Polvorilla e l'operazione acrobatica di sistemare le lenzuola sul letto sarebbe stata pericolosa anche per un alpinista professionista. Appena arrivati è scoppiato un temporale furioso e in pochi minuti la strada è diventata un fiume in piena. Ho portato la macchina in salvo in un parcheggio coperto, ma non è stato per niente bello guidare in mezzo a quel fiume. In certi momenti ho davvero avuto paura che mi portasse via. All'interno dell'ostello c'era più umidità che fuori e la mattina seguente sia io che i miei vestiti eravamo più bagnati della sera prima.
Il tratto tra Jujuy e Salta l'abbiamo fatto lungo una bellissima strada secondaria di montagna, attraverso un' altra vera foresta tropicale. La strada ci era stata descritta come difficile e pericolosa e per questo l'abbiamo affrontata con un certo timore, anche per via della pioggia del giorno prima. Invece era in condizioni perfette e a differenza di come pensavo era completamente asfaltata. In mezzo alla foresta mi aspettavo che da un momento all'altro il paesaggio cambiasse all'improvviso e ci ritrovassimo di nuovo in mezzo ai cactus. Non è successo, però è veramente notevole la variabilità di ambienti che si incontra in questa zona dell'Argentina.

A Salta ho deciso di fermarmi per un paio di giorni. Le ultime settimane le avevo passate ad un ritmo troppo serrato per i miei gusti e nemmeno il fatto che di tempo ormai me ne rimanesse poco mi stimolava a proseguire alla stessa velocità. Anzi, tanto più sentivo la necessità di fare una sosta. Sylvain invece è ripartito subito per la Bolivia. Purtroppo la sosta si è prolungata abbastanza oltre il previsto a causa di un altro problema gastrointestinale. La fase acuta è stata breve ma mi ha lasciato per diversi giorni completamente privo di forze. Quando mi è sembrato di stare meglio sono ripartito verso la Bolivia, però ho deciso di fare una sosta intermedia, di nuovo a Humahuaca, che si trova a circa tremila metri di quota, per vedere come reagiva il fisico all'altura. Nei giorni precedenti avevo passato alcuni giorni in quota e dovevo essere già abbastanza acclimatato, ma non ero ancora sicuro di essere del tutto a posto. Ed in effetti mi sono di nuovo sentito giù di forze ed ho aspettato per salire ancora. Ho fatto bene, perché poi quando il giorno dopo, questa volta sentendomi bene, sono arrivato a La Quiaca, la città argentina al confine con la Bolivia, ho trovato la strada bloccata da una manifestazione. Mi sono dovuto fare alcuni chilometri a piedi, a pieno carico e a 3.500 metri. Se mi fosse capitato il giorno prima sarebbe stata molto dura.
Risalendo ho ripercorso di nuovo tutta la quebrada de Humahuaca, da solo, e l'ho apprezzata di più rispetto al primo passaggio. I colori delle montagne in alcuni punti hanno veramente dell'incredibile. La stessa città di Humahuaca l'ho trovata molto più gradevole. C'è da dire che nel precedente passaggio ero capitato in piena settimana santa, in un momento di picco turistico. Ora l'atmosfera era molto più tranquilla. Ma devo anche dire che viaggiando da solo probabilmente sono più ricettivo, o forse semplicemente presto più attenzione.

venerdì 17 aprile 2009

Tempo di conclusioni

Il tempo, che all'inizio scorreva lentissimo, negli ultimi due mesi è letteralmente volato via, ed ora mi ritrovo che mentre sto cercando di raggiungere, con qualche difficoltà, il mio ultimo obiettivo, un pezzettino di Bolivia, devo già pensare a come organizzarmi per un rientro rapido, prima a Mendoza e poi a Buenos Aires.
Queste ultime settimane mi sono passate davanti come un treno in corsa ed ho la sensazione di non essere riuscito a saltare su al volo. O forse proprio il contrario: sono saltato su al volo ma ho preso il treno sbagliato. Succede quando si fanno le cose di fretta.
Non posso dire di essere deluso, perlomeno non più di tanto, però me la sarei potuta giocare un po' meglio. Anche se i posti sono bellissimi ho trovato il nord dell'Argentina diverso da come me lo ero immaginato. Mi ero fatto l'idea di luoghi un po' più remoti, per così dire. E invece mi sono ritrovato di nuovo dentro il circuito del turismo internazionale, grazie a Dio perlomeno relativamente di bassa stagione, che mi ha quasi risucchiato. Qui i collegamenti sono buoni sulle rotte principali, ma uscirne in corsa non è semplice. Bisogna impegnarsi.
E luoghi remoti in realtà ci sono, ma non era facile arrivarci: il solito problema di muoversi coi mezzi pubblici. Però si, non era facile, ma forse non impossibile. Forse per una volta avrei dovuto spendere del tempo per studiare meglio l'itinerario a tavolino. Non tanto per stabilire dove andare, ma piuttosto dove evitare di andare. Sicché negli ultimi tempi mi sono mosso in un modo e con dei ritmi che non sempre erano i miei. Il tempo che iniziava a stringere e l'inevitabile necessità di dover cominciare a fare dei calcoli e delle scelte mi hanno messo un po' in affanno e reso poco lucido, e non sono riuscito a trovare il momento buono per dare il colpo di reni e tirarmi fuori da questo piccolo vortice.
Non è certamente una tragedia, comunque.
Tecnicamente l'errore è stato quello di lasciarmi troppo poco tempo per il nord. Non perché ne abbia perso troppo tempo al sud. Laggiù mi sono mosso benissimo. Avrei semmai dovuto continuare a risalire con lo stesso ritmo, dedicando la stessa attenzione che avevo dedicato al ventoso sud fueguino e patagonico a tutti i posti dove sarei passato, arrivando alla fine semplicemente dove mi avrebbe portato il viaggio stesso.
Ma del resto il mio desiderio di salire al nord era reale, avevo davvero voglia di assaporare paesaggi ambienti e climi differenti. Probabilmente allora, una volta realizzato che ero completamente appagato dal sud, più o meno dopo aver visto il Cerro Torre, sarei dovuto salire con semplici e veloci tappe di trasferimento. L'errore è stato quel periodo di transizione troppo lungo, che non è stato né un trasferimento né una fetta di viaggio pienamente vissuto. Diciamo meglio che l'errore è stato di considerare il tempo a mia disposizione come indeterminato, e invece non lo era. Era tanto, ma non infinito. Ma va bene lo stesso, guardo il lato positivo: probabilmente ho imparato di più in questi ultimi due mesi che in tutto il resto del viaggio.
Ho imparato a viaggiare. O meglio, ho imparato come devo farlo io. Devo seguire il mio istinto, c'è poco da fare. Mi dà sempre i suggerimenti giusti, sono io che qualche volta insisto a non dargli fiducia e a farmi condizionare da quello che fanno gli altri. Vedere compagni di viaggio occasionali e di tratti di percorso parziali salutarmi e andare via a doppia velocità rispetto alla mia, anche i più lenti che ho incontrato, qualche volta mi metteva addosso qualche dubbio. Mi veniva da pensare certo, per una volta che sono in Sud America come posso non vedere anche il tale posto e il tal'altro. Bene, bisogna scegliere: o collezionare posti o seguire il proprio ritmo. Io ho cercato di seguire il mio ritmo, ma a volte però sono caduto nella tentazione del collezionista.
Comunque in un viaggio di mesi non ci si può muovere come in un viaggio di settimane. E' un'altra cosa. Il viaggio di settimane si, probabilmente è fatto soprattutto per vedere posti, il viaggio di mesi non solo. Non si possono passare mesi a macinare mete una dopo l'altra. Ogni tanto bisogna fermarsi, solo per fermarsi. Per prendere fiato, per mettere un po' in ordine, se no resta solo una gran confusione.
Il modo in cui mi sono mosso nei primi mesi assomiglia molto al mio viaggio ideale. L'itinerario a spirale sbilenca va benissimo. E' il mio. Ma potrebbe essere il mio anche un itinerario rettilineo. Qualsiasi forma abbia, rettilinea, a spirale, a trapezio, puntiforme, di traverso, verticale, all'indietro, l'importante è che sia il mio.
E va benissimo, per il mio viaggio, avere obiettivi diversi dal solo vedere posti. E spenderci tempo, anche molto. Seguire le tracce di qualcuno: l'idea era ottima. Solo che avevo scelto di seguire le tracce di uno come De Agostini, e sfido chiunque a stargli dietro. Ma ci sono mille cose interessanti in ogni posto in cui ci si ferma, di tracce da seguire e di storia e storie da conoscere ce ne sono un'infinità. Fermarsi in un posto e scoprire cosa c'è dietro ha tutto un altro sapore. Spenderci tempo chiedendo, informandosi, parlando, è un modo straordinario per entrare in contatto con la gente e conoscere l'anima di un luogo. Di qualsiasi luogo.
I miei compagni di viaggio delle ultime settimane studiavano molto l'itinerario a tavolino e spesso, riferendosi a determinati posti, li ho sentiti dire: qui non c'è niente. Solo per aver letto la guida. Al di là delle tante magnifiche bellezze naturali che ho visto, i posti in cui mi sono sentito meglio, parlo del mio stato d'animo, sono stati alcuni di quelli in cui "non c'era niente".
I miei primi mesi di viaggio semmai sono stati inquinati dalle aspettative, e anche da un po' di affanno, che mi ero portato da casa. Cercavo un'alternativa ed avevo la vaga illusione di poter di fare di questo viaggio un lavoro completo e presentabile. Quando ho capito che le idee che avevo non erano realizzabili la delusione non mi ha permesso di capire che perlomeno avevo scoperto il mio modo perfetto di viaggiare. Mi ha appassionato davvero indagare, accumulare materiale, passare tempo a mettere in ordine gli appunti vari, come fosse stato un lavoro.
A guardarli ora i miei progetti iniziali erano veramente ingenui e irrealizzabili. O troppo generici e vaghi, oppure assolutamente fuori dalla mia portata fisica ed economica. Non si può partire con idee così generiche e sperare di tirarne fuori qualcosa di buono. Almeno non può farlo uno come me, così lento a leggere quello che sta succedendo e così poco pronto a cambiare rotta al volo.
Per esempio, ora che conosco meglio questa realtà e so molto meglio come muovermi, ho in mente almeno due idee per lavori fotografici e di documentazione. Questa volta si tratta di progetti precisi, delimitati, con un inizio e una fine, e alla mia portata. Tranne che finanziariamente: i soldi a mia disposizione finiscono qui.
Voglio anche dire che durante tutto questo viaggio non mi sono mai sentito in vacanza, tranne nei pochi giorni in cui mi sono deliberatamente dedicato al puro e semplice riposo, senza pensare a niente. La gente, per inquadrarmi, mi chiede se sono qui per lavoro o "de vacaciones". Io rispondo de vacaciones, ma in realtà non mi sento dentro a questa categoria. E' una fortuna potersi permettere un viaggio come questo, sono d'accordo, ma non si tratta di una vacanza. Non vorrei usare parole troppo retoriche ma non so se ne sarò capace. E' stato un lavoro continuo, dal primo giorno fino all'ultimo. Un lavoro non retribuito e senza finalità economica. E, perché no, piacevole. Quasi sempre, ma non sempre. Un lavoro di apprendimento, di conoscenza esterna ed interiore. Che comporta la necessità di rendere più elastica la propria mente. Non è stata un'avventura estrema ma lo stesso è stato fare i conti con i miei limiti e provarli sul campo. Conoscerli, riconoscerli, qualche volta superarli e qualche volta dover mettere il segno e fermarsi lì. Mi sono sempre impegnato molto.
Le conclusioni definitive le tirerò alla fine. Però ora che ho imparato tutto questo sarebbe un peccato non poter ripetere l'esperienza.

martedì 14 aprile 2009

Cafayate e le valli Calchaquies

Poco dopo aver lasciato Tucuman in direzione di Cafayate si entra in una valle profonda le cui pareti sono ricoperte da un'autentica foresta tropicale. Ad un certo punto la strada comincia a salire, sempre circondata dalla vegetazione esuberante, finché, da un momento all'altro tutto cambia e ci si ritrova in mezzo ai cactus. Fare un sonnellino nel bus può far perdere le coordinate: ci si addormenta in mezzo alla jungla e ci risveglia nel deserto. Al risveglio è molto più facile credere che si sia fermato l'orologio piuttosto che ci si sia appisolati solo per cinque minuti.
Cafayate è una bella piccola città coloniale, in una valle fertile circondata da cactus enormi e montagne brulle di rocce colorate. Ho trovato l'atmosfera della città gradevole e rilassante, ma questa percezione è stata favorita dal fatto che l'apice della stagione turistica era già passato. Nei dintorni di Cafayate una valle spettacolare, la quebrada de las Conchas.




La quebrada de las Conchas


Montagne colorate

Il solito problema di come muovermi per le lande sperdute questa volta l'ho risolto grazie ad un'offerta dei ragazzi dell'ostello. Per una molto modica cifra uno di loro ci ha accompagnato in macchina, a me e a un francese, lungo la valle, fermandosi quando volevamo noi ed accompagnandoci per qualche camminata tra i meandri del canyon. L'alternativa era l'escursione di gruppo a tappe forzate pressati dentro un pulmino. Oppure la bicicletta. Si sarebbe trattato di caricarla su un bus di linea, scendere alla fine della valle e risalirla pedalando. Nonostante i cattivi ricordi di Puerto Williams e nonostante il caldo torrido che avrei incontrato ero disposto a pedalare di nuovo pur di evitare l'escursione compressa. Poi si è presentata la possibilità dell'ostello e siamo stati tutti contenti. Anche perché se avessi scelto la bicicletta non mi sarei potuto inoltrare all'interno dei canyon.
Non distante da Cafayate, immerse in mezzo ai cactus, ci sono le rovine di Quilmes, una città che per più di cento anni ha ricacciato indietro i conquistadores spagnoli. Fino a quando questi hanno capito che avrebbero dovuto tagliare le risorse idriche della città e così hanno fatto, deviando a monte il corso del fiume che la alimentava.


Quilmes

Da Cafayate ho proseguito verso Salta lungo le valli Calchaquies, passando per Angastaco, Molinos e Cachi. Strada scoscesa e paesaggio straordinario specialmente lungo il primo tratto, da Cafayate ad Angastaco. Dune di sabbia, montagne colorate, rocce appuntite, cactus, e sul fondo della valle, un po' di vegetazione, alcune coltivazioni e case sparse, costruite con mattoni di terra e paglia seccati, o piccoli villaggi. Di nuovo mi è costato vedere tutto dal finestrino del bus. Una frustrazione diversa però da quella che avevo provato altre volte. Qui avevo davvero e semplicemente voglia di fare foto per il piacere di farle, ma senza sentirmi in obbligo.
Angastaco è un villaggio costruito sulla sabbia, sul bordo della valle fertile e con il deserto incombente appena dietro le ultime case, con le dune che sembrano spuntare fuori dai tetti. Qui di turisti se ne fermano pochi. Camminate nei dintorni se ne possono fare il mattino presto o verso sera, nelle ore centrali della giornata il calore scoraggia molto. Quando mi sono avventurato l'orologio tecnologico del francese che era con me segnava 44 gradi verso le undici del mattino. Il luogo piuttosto invitava a trascorrere il tempo seduti all'ombra di qualche portico. Neanche a guardare la gente che passava, perché di gente ne passava veramente poca. Posti più tranquilli di questo al mondo ce ne sono pochi.
Risalendo per la valle una breve tappa a Molinos, altro piccolo villaggio, non piccolo quanto Angastaco, ma sicuramente dalla vita non molto più movimentata, e poi, salendo prima su un altopiano pieno di cactus e poi scendendo per mille tornanti lungo un'altra bella valle, si arriva a Cachi.
Che è un'altro luogo molto gradevole la cui gradevolezza è stata accentuata dal relativamente basso flusso turistico. Devo ammettere che di queste zone mi ero fatto l'idea che fossero un po' più sperdute e remote, invece tutti turisti che salgono verso il nord dell'Argentina passano per Cafayate e quasi tutti passano per Cachi. Nonostante ciò anche la sosta a Cachi è stata gradevole, la cittadina è bella ed è popolata da nativi cordiali e sorridenti. Salendo verso nord infatti sembra di entrare in un'altra Argentina. A partire da Tucuman la percentuale di nativi è andata sempre più aumentando, fino a diventare la quasi totalità della popolazione nei villaggi più piccoli.
Nei dintorni di Cachi ho potuto fare una bella camminata lungo la valle coltivata quasi interamente a peperoncini, ma guardando un po' più in là veniva la voglia di curiosare su cosa si sarebbe potuto incontrare alla fine della vallata o dietro a quella tale montagna. Ma il problema che continuo ad incontrare, il problema che ho incontrato durante tutto il viaggio, è quello di come muoversi. Si è prigionieri delle città e dei villaggi. Le alternative sono poche: o farsi spennare dalle agenzie turistiche per escursioni guidate, o farsi spennare dagli autonoleggi. A piedi c'è veramente poco dove andare, le distanze sono enormi e senza mezzi a motore non si va lontano.


Peperoncini al sole

Di nuovo verso nord

Dopo Valparaiso ho ripreso la rotta verso nord, obiettivo la zona di Salta e Jujuy. Ho considerato la possibilità di salire per il Cile, ma il primo passo transitato dai mezzi pubblici che avrei incontrato sarebbe stato quello di Jama, molto a nord: sarei dovuto arrivare fino a San Pedro de Atacama. In quelle zone ci sono già stato e ci sarei anche tornato volentieri, però il tempo inizia a stringere e mio malgrado devo iniziare a fare dei conti. Alla fine ho scelto il versante argentino per vedere, sempre attraverso la cornice del finestrino di un bus, un paesaggio che non conoscevo.
Quindi nuovo attraversamento di cordigliera e confine, di nuovo per il passo de Los Libertadores e di nuovo ammirando il rampicante percorso del Ferrocarril Trasandino ed il selvaggio e multicolore paesaggio di quelle montagne.
Le prime due tappe sono state San Juan e Tucuman. Delle due città ho poco da raccontare perché ho visto poco, avendo passato la maggior parte del tempo a chiacchierare dentro gli ostelli.
Se c'è una cosa buona che ha portato il passare del tempo è la fine della stagione turistica. Dopo la carrettera Austral si è dissolta all'improvviso l'orda di viaggiatori implacabili e super efficienti che seguivano la guida turistica come fosse stata la bibbia. Da Chiloé in poi non ho quasi più incontrato turisti occidentali: europei, nordamericani e oceanici (da Oceania), che dopo le visite e le escursioni comandate passavano il tempo in rigorosa ed esclusiva compagnia reciproca, senza mostrare alcun interesse per quello che della realtà locale non era menzionato dalla guida. Non ho mai visto uno di questi viaggiatori in un bar o in un ristorante frequentato dalla gente locale. Chiusi negli ostelli a parlare tra di loro, a cucinare secondo la loro cucina, a pianificare, guida alla mano, le future tappe del viaggio oppure a sbevazzare e fare festa, specialmente i più giovani e nelle città più grandi (le quali erano piene di locali appositamente adibiti a far casino, ma loro preferivano fare casino dentro gli ostelli). E quando uscivano frequentavano i locali e i ristoranti, spesso "etnici" (sottolineo le virgolette), appositamente concepiti per loro.
L'ho trovato un modo di viaggiare mantenendo le distanze, senza mescolarsi, guardando il mondo come dietro la vetrina di un museo o, qualche volta, la gabbia di uno zoo. Portandosi dietro il più possibile del proprio mondo e cambiando il meno possibile delle proprie abitudini. Compreso il ritmo.
Naturalmente ognuno viaggia e si muove come vuole e come può, l'importante è che nel viaggiare si porti rispetto alla gente del posto e all'ambiente. Quanto meno che non si producano danni.
Rimanere chiusi, anche in viaggio, nella cerchia di persone provenienti dal proprio paese o comunque con cui si ha in comune lo stesso stile di vita può anche essere il sintomo del timore per ciò che è fuori dal proprio mondo e che non si conosce. A me però ha dato molto di più la sensazione di semplice e distaccata mancanza di interesse per ciò che non fa parte del proprio modo di vivere e della propria cultura, e di un implicito atteggiamento di superiorità.
Io pure, di mio, ho sicuramente i miei timori e le mie remore nel mescolarmi e lasciarmi andare, che in parte nel corso dei mesi ho superato ed in parte no. Ciononostante non mi sento così legato al mio modo di vivere, al mio modo di mangiare (e di bere il caffè), alle mie abitudini, alla mia lingua, da non volervi o non potervi rinunciare, almeno per il periodo di un viaggio. Piuttosto, con tutti i limiti che ho, quello che cerco di fare è staccarmene. Ci riesco in parte, ma quando ci riesco sono contento e sento di guadagnarci molto.
Insomma, nei confronti di questo tipo di turisti mi sentivo molto poco in sintonia e col passare dei tempo ed il consolidarsi del mio modo di vedere le cose ho smesso di cercare un contatto anche con loro e anzi, mi sono mantenuto sempre più alla larga. Non è stato difficile perché anche da parte loro nei miei confronti c'era una naturale indifferenza ed era evidente che non appartenevamo alla stessa comunità di viaggiatori.
Già che ci siamo, per finire il discorso sull'affinità con i colleghi viaggiatori, posso dire che mi sono trovato più facilmente in sintonia, tra gli occidentali, con spagnoli e francesi, e molto bene mi sono trovato con i viaggiatori "nazionali", cileni e argentini. Ciò non toglie che qua e là mi sia rapportato piacevolmente anche con persone del mondo anglosassone, germanico, nordeuropeo ed oceanico, ma in generale ho avuto più facilità a entrare in sintonia con i latini, e credo non solo per la maggiore facilità di comunicazione linguistica che avevo con loro.
In ogni caso da Chiloé in poi negli ostelli ho trovato poco affollamento e tutt'altra popolazione, e ne sono stato felice. In molti casi non si trattava nemmeno di viaggiatori ma di residenti fissi, persone che per motivi di lavoro, studio o altro si dovevano fermare a lungo in una determinata città. Il turismo era prevalentemente nazionale, molti argentini e cileni, e tra gli occidentali viaggiatori fuori stagione o di lungo corso (gente che sta fuori da anni) con un approccio e un ritmo molto diversi dalla massa che avevo incontrato fino a quel momento. Così negli ostelli l'ambiente era ricco e interessante. Gli stessi proprietari o i ragazzi che vi lavoravano erano ben disposti a fare delle chiacchiere, e così il tempo passava piacevolmente e le visite turistiche passavano in secondo piano.

Quintay

Quintay è una caletta a poche decine di chilometri da Valparaiso, un piccolo villaggio di pescatori in una bella scenografia di costa rocciosa. Lungo la spiaggia diversi ristoranti che in estate richiamano una buona quantità di gente da Santiago e Valparaiso, ma senza intaccare troppo, credo, l'atmosfera tranquilla del posto. In ogni caso quando ci sono passato io la stagione turistica era già finita e di tranquillità ne ho trovata in abbondanza.
La cosa più interessante del posto però è il vecchio stabilimento per la lavorazione delle balene, che ora è un museo gestito dalla Fondazione Quintay con l'obiettivo di trasformarlo in un "centro di promozione di una cultura di rispetto del mare".
Il museo racconta la storia dello stabilimento, che fu aperto nel 1943 per investimento di un grosso gruppo industriale cileno. L'industria della balena era molto redditizia, vi si ricavavano un'infinità di prodotti per uso domestico e industriale. Non si buttava via niente, della balena.
Lo stabilimento funzionava a ciclo continuo e, considerata la pericolosità del lavoro, durante tutto il periodo in cui fu attivo a Quintay fu proibito il consumo di alcol (e questo fece la fortuna di una cantina situata appena fuori dal paese). Il lavoro era duro ma molto ben pagato, almeno il triplo rispetto a qualsiasi altra attività che si potesse svolgere nella zona ed i lavoratori vivevano in edifici di alto standard di comodità che la compagnia aveva costruito appositamente per loro. Nonostante questo quasi nessuno dei locali abbandonò la propria attività di pesca artigianale per lavorare nello stabilimento, che invece portò cambiamenti soprattutto negativi per la vita quotidiana e lavorativa della gente del posto. Per i danni che produceva alla pesca locale, per l'inquinamento e per l'odore nauseabondo. Quando gli abitanti di Quintay andavano a Valparaiso venivano individuati dall'odore di cui erano impregnati.
Lo stabilimento arrivò a lavorare, nell'anno di maggior produzione, più di 1600 balene e l'impresa arrivò a possedere 19 baleniere, ognuna delle quali poteva cacciare fino a sedici balene al giorno. Le balene uccise venivano trainate dalle navi fino alle vicinanze della costa e poi per mezzo di piccole lance venivano sospinte all'interno della baia, dove venivano fissate a delle boe e lasciate a galleggiare, mediante un sistema di iniezione di aria, in attesa di essere lavorate. A volte nella baia si accumulavano decine di balene e le acque e la costa diventavano di colore rosso sangue.
Nel 1965 lo stabilimento fu acquisito da una compagnia giapponese. Navi frigorifero iniziarono a fare la spola col Giappone, che è il praticamente il solo paese al mondo dove la carne di balena è considerata un alimento. Infine nel 1967 l'adesione del Cile all'accordo internazionale (firmato da tutte le nazioni del mondo escluse Giappone e Norvegia) che vietava la caccia alla balena pose fine alla storia dello stabilimento, che fu chiuso definitivamente.
Nel museo dei pannelli ricordano la presenza costante della figura della balena nella mitologia, nella religione e nella letteratura. Raccontano di quando la caccia era una forma di sussistenza per alcuni popoli, praticata come una lotta corpo a corpo, e di come nel tempo si sia trasformata in una industria vera e propria. L'era della caccia tecnologicizzata iniziò a metà dell'ottocento, quando si cominciarono ad utilizzare le baleniere a vapore e fu inventato l'arpione esplosivo, dotato di una granata che esplodeva pochi secondi dopo aver colpito l'animale. In seguito a ciò già nei primi anni del novecento il numero delle balene era già drasticamente diminuito ed in pochi anni si arrivò al limite dell'estinzione.
Del vecchio stabilimento sono rimasti solo i resti della struttura e gli scivoli e i piazzali dove le balene venivano trascinate e lavorate. Ho trovato tutto molto suggestivo e le ore che ho passato nel museo mi sono volate via senza che me ne rendessi conto, tanto che il custode che non si ricordava più che fossi lì quasi mi chiudeva dentro.